Ghostwire: Tokyo (PC)

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Ho atteso spasmodicamente Ghostwire: Tokyo sin dal suo primo annuncio durante la conferenza Bethesda all’E3 2019, quando il buon vecchio Shinji Mikami e il creative director Ikumi Nakamura salirono sul palco descrivendolo come “un nuovo action-adventure con elementi orrorifici“. Avendo apprezzato i lavori precedenti della Tango Gameworks – ovvero i due The Evil Within – e adorando l’illustre eredità videoludica del suddetto Mikami, sarebbe stato impossibile per me non divorare quest’opera inedita.

Prima di proseguire urge subito una precisazione, dal momento che molti utenti tendono a fare confusione: Shinji Mikami è il produttore esecutivo di questo titolo, mentre il game director vero e proprio è Kenji Kimura. Ciò non toglie, tuttavia, che il gioco presenti qua e là elementi grazie ai quali è possibile intravedere la mano del padre di Resident Evil.

Una storia in equilibrio tra dramma e leggerezza

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Il nostro protagonista: Akito Izuki.

La storia ha inizio al celebre incrocio di Shibuya. Qui un giovane di nome Akito è diretto all’ospedale per far visita alla sorella Mari, ormai in fin di vita, ma purtroppo viene coinvolto in un grave incidente in cui rischia di morire. Ad un tratto, uno spirito per nulla amichevole si impossessa del suo corpo, restituendogli le facoltà mentali e motorie in maniera non dissimile a ciò che accade in Cyberpunk 2077. Il fantasma lo costringe a collaborare per portare a termine un compito molto pericoloso: catturare un terrorista chiamato Hannya (come la maschera da demone che cela la sua identità). Pare infatti che l’uomo, tramite l’ausilio di una gigantesca e sinistra coltre di nebbia con cui ricopre tutto il quartiere – il richiamo alla Los Angeles di Blade Runner è abbastanza palese – abbia fatto sparire nel nulla ogni cittadino, seminando per le strade yokai maligni e tormentati (detti Visitatori). La sua promessa è quella di assumere il ruolo di messia che guiderà l’umanità verso un mondo nuovo, e la creazione di quest’ultimo avverrà attraverso un rituale di proporzioni mai viste prima.

Hannya trascina nei suoi piani anche l’indifesa Mari, quindi sarà compito dello spaesato Akito – affiancato dal suo nuovo, burbero “collega” – salvarla e porre fine alla catastrofe che ha reso deserta gran parte di Tokyo (personalmente, mi ha ricordato ciò che accade in Everybody’s Gone to the Rapture). A proposito del sopracitato collega, questo si presenta come KK, un detective che ha rinunciato al suo nome e che bracca l’enigmatico terrorista da molto tempo; la sfortuna ha voluto che sia rimasto ucciso durante l’indagine. Per approfondire il suo ruolo nella trama, vi invito a recuperare il nostro speciale su Ghostwire Tokyo Prelude: The Corrupted Casefile.

Tutto il racconto è accompagnato da una costante sensazione di perdita e di smarrimento; in ciò, Ghostwire: Tokyo ha delle velate somiglianze con alcune tematiche presentate in Death Stranding. Non mancano poi approfondimenti sulle figure di Akito e Mari e sul loro passato. Ovviamente, anche la storia di KK viene sviscerata nella sua intimità, insieme a dettagli sulla sua cruciale missione e ai motivi che l’hanno spinto a rischiare la vita. I pochi ma fondamentali comprimari – Ed, Rinko ed Erika – stratificano ulteriormente il racconto. È molto stimolante scoprire piano piano i rapporti tra questi “Ghostbusters giapponesi” molto ben scritti e, soprattutto, umani. In ultimo, il legame tra Akito e KK è orchestrato per evolversi in maniera realistica e appassionante.

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Hannya, in tutta la sua lugubre potenza espressiva.

Nel suo divenire sempre più stretta, la complicità tra i protagonisti si inserisce in una narrazione meno pesante di quanto ci si potrebbe aspettare. Temi impegnativi come l’ineluttabilità della morteil dolore della perdita, il complesso della mummia e tanti altri vengono controbilanciati proprio dai due compagni di viaggio, che si lasciano spesso andare a battute o conversazioni leggere favorendo l’immersione del giocatore, senza però sminuire il sottotesto drammatico. Stando alle parole del game designer Suguru Murakoshi (Silent Hill 2, Silent Hill 4: The Room), lui e gli artisti di Tango Gameworks hanno intenzionalmente creato questo mix per evitare che il risultato finale fosse troppo “depressivo“. Murakoshi ammette anche di aver inserito nel gioco tracce autobiografiche (entrambi i suoi genitori sono morti durante lo sviluppo), che lo hanno aiutato a mettere a fuoco a dovere il nocciolo della storia. Quest’ultima è stata supervisionata da Shinji Mikami stesso, che ha messo da parte la scrittura seriosa di prodotti come Resident Evil 2 per attingere da giochi come il suo God Hand.

Quanto ad Hannya, si tratta di un villain convincente che dà il meglio di sé soprattutto nelle fasi finali del titolo, tuttavia avrei preferito che il suo background venisse approfondito ancora di più rispetto a quanto viene fatto durante l’incedere della trama. Non è un antagonista insipido, sia chiaro, aveva semplicemente bisogno di quel quid in più. Allo stesso tempo, però, porta sul piatto grandi tematiche care alla sociologia del mondo postmoderno come il ribaltamento delle megalopoli e la mancanza di spazio vitale per il cittadino odierno; tutti spunti di riflessione evidenziati, tra i tanti, dal fotografo Michael Wolf (che invito ad approfondire). Il terrorista, nel suo scetticismo esistenziale, non fa altro che mettere in discussione la razionalità dell’ambiente in cui vive: una metropoli soffocante che tenta di ribaltare, appunto, con yokai irrazionali.

Combattere in una Tokyo spettrale

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Venendo al cuore del gioco, parliamo delle meccaniche di gameplay. A prima vista Ghostwire: Tokyo potrebbe sembrare un immersive sim, quando in realtà si tratta semplicemente di un’avventura action in prima persona con una spiccata componente open world. Per farsi strada nella spettrale Shibuya, Akito può fare affidamento su tre diverse abilità chiamate Tessiture eteree, divise in Tessitura di vento – tremendamente simile alla Cyclone Trap del primo BioShock – d’acqua e di fuoco. Come un classico personaggio anime proveniente dritto dritto da Naruto, il nostro eroe scaglierà magie dalle sue mani. Gli effetti sono molteplici: il vento genera semplici proiettili da scagliare, l’acqua un’onda di energia per colpire più nemici in un’area ampia e il fuoco una bomba dal danno molto elevato.

Su PC, per attaccare si usa il tasto sinistro del mouse e per difendersi, di default, la rotellina. Ho subito trovato questa impostazione davvero scomoda, quindi consiglio di cambiarla. Nonostante ciò, i comandi in generale sono facili e intuitivi: il gioco ci tiene per mano nelle prime fasi, permettendoci di apprendere le nozioni di base abbastanza in fretta e lasciandoci ambientare a dovere.

Le “munizioni” a disposizione si chiamano PS. Sconfiggere i Visitatori o distruggere dei depositi di etere sparsi in giro – identici a quelli di Deathloop – sono le azioni con cui ricaricare il mana. Inoltre, i PS massimi aumentano permanentemente pregando presso delle statue di Jizo di vari colori (associati alle nostre skill). Esiste anche dell’etere cristallizzato giallo: romperlo fa guadagnare al giocatore dei meika, ovvero soldi. Questi sono spendibili in konbini dove troveremo dei simpaticissimi Nekomata, pronti a venderci cibo e oggetti utili alla nostra avventura. Per comprare degli snack si possono anche usare le classiche macchinette automatiche sparse per tutta la città.

ghostwire tokyo tessitura

A proposito di cibo, questo serve prevedibilmente per recuperare salute. Oltre a ciò, ogni commestibile dona un piccolo aumento permanente di punti vita massimi. Dall’inventario è possibile equipaggiare questi oggetti per usarli nel momento del bisogno, invece la sezione “Archivio” elenca gli snack raccolti. È bello notare come le loro descrizioni siano state curate, spiegando caratteristiche e origini delle pietanze, un gradito elemento di folklore nipponico. Sorprendentemente, è possibile raccogliere anche del “cibo spettrale“, proveniente dall’Oltretomba, che ripristina salute e al contempo funge da buff temporaneo.

L’interfaccia è pulita e chiara, peccato per la mancanza di Quality of Life come degli indicatori a schermo con la quantità di soldi o di punti esperienza a nostra disposizione. Tutte queste informazioni infatti sono riservate al menu principale, forse per evitare di riempire lo schermo con troppi dati.

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I combattimenti sono divertenti e ritmati, dal momento che le munizioni citate in precedenza vanno gestite oculatamente. L’HUD permette poi di avere la giusta consapevolezza dell’area durante gli stessi. La spatial awareness infatti è fondamentale, dal momento che per sconfiggere in modo sicuro i nemici occorre strappare i loro nuclei con un’esecuzione (non dissimile da quelle di Doom, per intenderci). Se durante quest’ultima si viene raggiunti da un attacco, il nemico si libererà e potrà continuare la sua offensiva, vanificando tutti gli sforzi. Un sistema di parry permette, infine, di rispedire al mittente i colpi ricevuti o di subirli senza ferirsi.

Quando i nemici si presentano in gruppi eterogenei – alcuni di loro omaggiano Silent Hill e Resident Evil Village – gli scontri possono farsi più complessi. È utile individuare bersagli prioritari ed eliminarli in fretta per poi sfoltire il resto. La varietà di mostri e situazioni è buona se si prendono in considerazione anche gli Hyakki Yako: delle occasionali e randomiche orde di yokai che teletrasportano Akito e KK in dimensioni parallele dove lottare per la sopravvivenza.

I livelli di difficoltà sono quattro: facile, normale, difficile e Tatari; quest’ultimo è “per i giocatori che non temono di dover reagire all’istante per salvarsi la pelle“. Ciò si traduce nell’azzeramento di tutti i premi dei punti esperienza e nell’impossibilità di cambiare la difficoltà senza avviare una nuova partita. Io ho giocato impostando tutto su Normale e a questo livello gli spiriti maligni più basilari – Erranti della pioggia e simili – sono molto, forse troppo, facili da battere. Così come troppo facile risulta il resto dell’avventura: durante il mio playthrough sono morto meno di una decina di volte, riuscendo quasi sempre a vincere le battaglie senza intoppi. Se cercate una vera sfida, credo che dobbiate prediligere almeno la modalità difficile.

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Strappare i nuclei degli yokai è davvero soddisfacente a livello visivo e scenografico.

Nonostante la semplicità nella progressione, questa è accompagnata da una discreta quantità di strumenti e potenziamenti da sbloccare per rendere più varia l’esperienza complessiva. Più avanti nella storia si ottiene la cosiddetta “Connessione“: attivandola dopo aver estratto nuclei nemici a sufficienza, Akito e KK entreranno in sintonia. Questa azione ripristina tutte le munizioni della Tessitura eterea e genera un’onda d’urto attorno al giocatore che scaraventa via i nemici più deboli e stordisce quelli più forti (oltre a fiaccarli). È una buona trovata per invogliare gli utenti a uccidere gli spiriti rubando loro il nucleo, senza ricorrere ad uno spam scellerato di colpi che appiattirebbe troppo il combattimento. Insomma, Ghostwire: Tokyo spinge sempre a sfruttare tutti i poteri a disposizione per portare a termine gli scontri; come se non bastasse, certi mob hanno dei punti deboli sfruttabili solo grazie a mosse specifiche.

Abbiamo poi la Visione spettrale, che è essenzialmente un Occhio dell’aquila preso direttamente da Assassin’s Creed. Questa permette di vedere attraverso i muri e si sfrutta in certe situazioni particolari: talvolta, ad esempio, incorreremo in pantani di Corruzione – del materiale oscuro sparso per Shibuya – e la visione aiuterà a trovare la sorgente di questa oscurità per distruggerla. Naturalmente, data la natura open world dell’opera, questa abilità può essere utilizzata anche per scovare i numerosi collezionabili, di cui parlerò più avanti.

Il gioco presenta persino una componente stealth a cui ricorrere per superare certe zone, eliminando istantaneamente i bersagli con un backstab di soulsiana memoria. Al contrario di quanto si possa pensare, agire silenziosamente non è una passeggiata: gli yokai si muovono parecchio ed è complesso aggirarli senza che ci notino. Per questo motivo, tornano utili i sopracitati strumenti: un potente arco e dei talismani, preziosi gadget tattici che permettono di fare zoning. Quelli stordenti, per esempio, funzionano come i petardi di Sekiro, disorientando la maggior parte dei nemici.

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Arrivando di soppiatto alle spalle degli yokai, si può eseguire una purificazione istantanea.

Progredendo tra i capitoli ci saranno dei momenti in cui, per motivi di trama o a seguito di potenti offensive nemiche, verremo separati da KK. In questi frangenti, non è possibile usare i poteri: per sopravvivere si è costretti a uccidere in silenzio o con i gadget. Così il titolo giustifica la sua componente stealth, divenendo più ostico. Il principale obiettivo è ovviamente quello di riunirsi appena possibile con il nostro compagno.

Quanto a KK, la crescente sinergia con lui non è altro che il livello del personaggio. Accumulare esperienza, durante gli scontri o completando le missioni, aumenta i poteri e i punti vita di Akito. In soldoni, livellare fornisce punti abilità spendibili per nuove skill. Quest’ultime sono divise in tre rami: Capacità, Tessitura Eterea ed Equipaggiamento. Il level up è molto facile, soprattutto salvando gli spiriti benigni appartenenti ai cittadini scomparsi: questa azione darà migliaia di PE. Certe ramificazioni sono temporaneamente bloccate e per sfruttarle occorrono dei magatama: collezionabili ottenibili assorbendo yokai specifici – tra le attività più noiose e ripetitive di tutte – o compiendo missioni secondarie.

Oltre ai magatama esistono anche dei rosari da indossare, nient’altro che utilissimi buff, necessari più che altro durante le boss fight. Queste sono abbastanza diversificate e spingono il giocatore a pensare a tattiche diverse per vincere (dalla furtività alla forza bruta).

L’incubo dei completisti

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L’abbigliamento di Akito è completamente personalizzabile.

Spostando l’analisi sull’esplorazione, posso finalmente parlare di una delle componenti preponderanti nella creazione di Tango Gameworks: i collezionabili. Sono di vari tipi – cimeli, vecchi appunti di KK e così via – alcuni non sono altro che elementi del folklore giapponese (daruma, kagura suzu, kokeshi…) che aumentano esponenzialmente il coinvolgimento nell’ambientazione. I manufatti sono vendibili ad alcuni nekomata specifici per ottenere laute ricompense (denaro, skin per il personaggio, oggetti rari…); il completista di turno potrebbe impazzire per la mole di oggetti da trovare. Se uniamo tutti i tipi di collezionabili – dai già citati spiriti da salvare ai “souvenir” – arriviamo ad un numero spaventosamente alto di cose da trovare, decisamente troppo alto. Benché ogni ninnolo racconti una storia unica e, per certi versi, sveli curiosità interessanti sul Giappone, ciò non impedisce persino ad un collezionista matto come me di annoiarsi – alla lunga – dopo reiterate cacce al tesoro. Un numero inferiore di ammennicoli avrebbe sicuramente giovato al titolo, senza gonfiarlo inutilmente.

Note, messaggi e registrazioni vocali compongono poi l’insieme delle testimonianze sparse per Tokyo, arricchendo la lore. Alcune di esse sono ricche di dettagli e approfondiscono la tradizione del Sol Levante (sono sicuro che all’otaku medio brilleranno gli occhi).

Fondamentali sono i katashiro, piccoli origami che servono ad assorbire gli spiriti dei cittadini non ancora catturati dagli yokai (spesso nascosti molto bene tra i vicoli e i tetti della metropoli). Questi, una volta recuperati, vanno portati ad una delle tante cabine telefoniche sparse per il mondo di gioco dove, tramite un marchingegno altamente tecnologico costruito da Ed, verranno strappate dalle grinfie di Hannya. Usare dei telefoni per entrare in contatto con un altro piano di esistenza potrebbe essere un’oculata citazione a diverse opere videoludiche e audiovisive come Control, Matrix Strade perdute. Ci sono ben 240.300 spiriti da trovare, accumulabili in gruppi di poche centinaia e in vari modi, uno dei quali è tramite dei Cubi di contenimento, protetti da orde di nemici. Più spiriti si inviano, più PE si guadagnano, quindi è consigliato catturarne il più possibile.

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Come potrebbero mancare dei Tanuki smarriti? Acchiapparli sarà un’altra delle attività da intraprendere per completare tutto al 100%.

La mappa di gioco è inizialmente ricoperta dalla stessa nebbia che ha svuotato la metropoli. Per eliminarla bisogna purificare dei portali Torii, così facendo parti della città verranno svelate (come accade in numerosissimi open world tipo Far Cry). Fatto ciò, si potrà viaggiare rapidamente attraverso Tokyo oltre a sfruttare altre simpatiche interazioni tutte da scoprire. In alcune zone – per sbloccare passaggi segreti o semplicemente liberare spiriti imprigionati – occorre trafficare con dei sigilli magici attraverso un breve rituale gestuale, ovvero un minigame dove si sfrutta il mouse. Quest’ultimo, a onor del vero, diventa presto monotono, dato che i puzzle proposti sono poco articolati. Fortunatamente, il processo può essere saltato automaticamente al sopraggiungere della noia.

A questo proposito, ammetto che intorno alle 30 ore di gioco, nonostante la gran mole di cose da fare, si inizia a percepire una certa ripetitività, dal momento che le missioni secondarie reiterano spesso gli stessi schemi. Malgrado ciò, la maggior parte di queste ultime fanno eco alle substories di Yakuza, essendo stratificate e ben sceneggiate: quasi ogni location delle quest è unica e alcune missioni come “Nascondino”, divisa in più episodi, sono anche commoventi. Ciò che porta avanti il giocatore è la voglia di raggiungere il 100%, insieme alla curiosità, e personalmente ho finito e quasi “platinato” Ghostwire: Tokyo in 45 ore precise.

Shibuya, in ultimo, non sarebbe tale senza la sua verticalità: per i cieli del quartiere volano dei Tengu e agganciarsi a loro con un rampino permette di raggiungere nuove altezze. È anche possibile volare a mezz’aria per breve tempo: ciò aiuta a esplorare velocemente parti di mappa altrimenti inaccessibili che premiano gli esploratori più scrupolosi. Chiudo questa parte dedicata all’ambientazione citando due chicche: un lettore MP3, perfetto per accompagnare le nostre esplorazioni, e l’ormai immancabile modalità foto.

Un impatto visivo notevole, ma imperfetto

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Avviandomi alla fine di questa lunga recensione, non posso esimermi dall’analizzare l’aspetto tecnico. Le opzioni grafiche su PC permettono di personalizzare la resa video in maniera soddisfacente: Subsurface Scattering, Screen Space Reflection, V-Sync, manipolazione dell’illuminazione globale tramite SSGI – Screen Space Global Illumination – ed SSAO, gestione dello streaming di dati e texture, Ray Tracing e Upscaling – tramite DLSS, AMD FSR 1.0 e TSR – sono le impostazioni più importanti che il menu ci permette di modificare. Un gran peccato che manchi uno slider per campo visivo (FOV), installabile solo tramite apposite mod già esistenti.

Il gioco sfrutta le DirectX 12 e gira su Unreal Engine 4. Si nota sia dagli effetti di post-processing, sia dai particellari molto generosi e marcati. Questi svolgono un ruolo di prim’ordine nell’estetica del prodotto, rendendo i combattimenti molto scenografici (complici anche le animazioni fluide ed estrose degli yokai e delle mani di Akito).

L’illuminazione è ottima – a parte la rifrazione su certi materiali – anche grazie a tecnologie come i riflessi screen space: è interessante notare come la città reagisca alla presenza degli spiriti malvagi, soprattutto durante i conflitti. Le luci dei negozi e lungo le strade, per esempio, cambieranno colore influendo sull’atmosfera; il discorso vale anche per gli interni.

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Alcuni edifici sono visitabili e palesano la grande cura nei dettagli di cui gode tutta Shibuya.

Il colpo d’occhio è notevole. La capitale del Giappone è ricreata alla perfezione; l’attenzione si nota soprattutto in diversi particolari – da non sottovalutare – come le insegne, la spazzatura, le luci al neon, la resa estetica dell’asfalto (sia asciutto che bagnato) e così via. Ogni ambientazione è modellata a livelli maniacali, ha una sua precisa identità e trasmette emozioni contrastanti, come se ci si trovasse in un gigantesco spazio liminale. C’è da dire però che questa premura folle per le location si traduce in luoghi sì decoratissimi da modelli che rasentano l’eccellenza, ma “statici“: la fisica è stata applicata col contagocce e il risultato è un “effetto acquario” che, nonostante tutto, non mina l’esperienza complessiva. In ultima analisi, credo che una decisione tale sia stata presa per non gravare troppo sulle prestazioni, data la vasta e variegata mole di oggettistica.

I luoghi spiritati e corrotti dalla malvagità – che plasma a suo piacimento lo spazio – creano frangenti dove l’horror soprannaturale si fonde con dei glitch fantascientifici e attimi persino surrealisti. Alcuni scenari palesano la supervisione di Mikami, siccome sono permeati da atmosfere orrorifiche non dissimili da quelle di titoli storici come Resident Evil 3: Nemesis e Silent Hill. Insomma, una cosa è certa: la direzione artistica è lodevole; molti dungeon – grandi o piccoli che siano – vi faranno venire voglia di scattare screenshot a destra e sinistra per l’originalità di certe scelte di design. Ghostwire: Tokyo porta con sé quel senso di “orrore nell’ordinario” che mancava da tempo nei titoli odierni, dotati soprattutto di mondi esagerati o folli. La creazione di Kenji Kimura non ha bisogno di questo, poiché sfrutta intelligentemente la sua semplicità.

Le musiche di commento, anche quelle che fungono semplicemente da lugubre sottofondo alle nostre esplorazioni, sono sempre adatte e non risultano mai ingombranti a livello scenico. La colonna sonora – firmata da Masatoshi Yanagi – è cangiante e di ottima fattura, complici anche le molteplici strizzate d’occhio alle sonorità tipiche del Sol Levante che toccano notevoli punte di ambient e post-rock.

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Come ci ha insegnato The Stanley Parable, anche un banale ufficio può essere inquietante. I ragazzi di Tango Gameworks ce lo ricordano.

Il titolo è ottimizzato bene su PC – soprattutto su macchine che montano tecnologia Nvidia – diversamente da molte produzioni nipponiche decisamente sotto il livello di guardia (Monster Hunter World, Resident Evil 7: Biohazard ed Elden Ring tra gli esempi più recenti). Il frame rate è tutto sommato stabile (con quasi tutte le impostazioni video al massimo e il DLSS attivo). Ho registrato degli sporadici cali sotto i 60 solo con molti particellari a schermo (non temete, rimangono perdite irrisorie di 2/3 frame). Tutto merito della volontà degli sviluppatori di utilizzare un motore grafico rodato e non un engine proprietario creato in poco tempo e mal ottimizzato (vero CD Projekt RED?).

In sintesi, persino nel corso di sessioni di gioco estese e intense, i cali di performance sono quasi inesistenti. Sottolineo “quasi”, perché vorrei comunque segnalare dei casi isolati in cui il gioco ha subito gravi crolli sotto i 60 fps, per assestarsi tra i 35 e i 50 scarsi. Inizialmente, per risolvere, ero convinto che bastasse ricaricare la partita o riavviare il gioco. Indagando più a fondo, ho scoperto che il problema è da attribuire a instabilità di qualche tipo, legate alla funzione di streaming delle texture. Quindi il mio consiglio è – a parte aggiornare i driver della scheda video se necessario – settare quest’ultima opzione su “Automatico” e non forzare il gioco in modalità “Film” (l’alternativa più alta disponibile). Si spera in una patch correttiva che sistemi le cose, dal momento che, grazie al subreddit ufficiale, sono venuto a conoscenza di situazioni in cui Ghostwire: Tokyo risulta – cito – “ingiocabile” (soprattutto con l’inutile ray tracing attivo).

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Il vero neo inguardabile dal lato tecnico ed estetico tuttavia è un altro: la pioggia. In primis, è molto strano che a Shibuya pioviggini a tratti. Mi spiego: durante le nostre passeggiate la suddetta pioggia comincerà a cadere per poi interrompersi bruscamente e in maniera del tutto randomica. Non trovate che sia poco credibile? Akito è forse perseguitato dalla nuvola di Fantozzi? Battute a parte, la resa stessa dell’acqua è eccessivamente “gommosa”, le gocce singole sono troppo invadenti e creano acquazzoni fittissimi.

Come se non bastasse, la sopracitata acqua scende seguendo la posizione della videocamera, e questo la fa risultare bidimensionale come se fosse stata creata con un materiale billboard. In altre parole, la pioggia che cade sul personaggio – se si guarda all’insù – pare uscita direttamente da Minecraft; quella in lontananza, invece, è semplicemente composta da piccoli modelli che cadono perfettamente in orizzontale. Una trovata fuori tempo massimo, davvero brutta da vedere: sembra che a Tokyo piovano cartine per le sigarette. Fortunatamente non è tutto una tragedia: il discorso è infatti diametralmente opposto per quanto riguarda la resa estetica dei liquidi che bagnano terreno, modelli, veicoli e facciate dei palazzi, molto realistica e convincente (soprattutto se si considera il fatto che anche le mani del protagonista possono bagnarsi).

Ci sono due ultime cose che non mi hanno convinto particolarmente. Innanzitutto i materiali metallici: fin troppo lucidi, quasi laccati; oggetti come moto, auto, ringhiere e simili rifrangono le luci al neon di Shibuya in maniera, a volte, innaturale. La seconda è un’aberrazione cromatica medio-alta praticamente onnipresente e non disattivabile. Capisco che molti apprezzino l’effetto che dona alle scene – specialmente in un gioco futuristico come questo – ma credo che alla lunga risulti stucchevole e il non essere in grado di rimuoverla mi ha fatto personalmente storcere il naso.

Il fascino esoterico del Giappone

ghostwire tokyo shibuya
Lo ripeto: la pioggia è veramente inguardabile.

Ghostwire: Tokyo non è un videogioco perfetto: molti lo troveranno ripetitivo e le sbavature tecniche non aiutano. Tuttavia, consiglio con il cuore di dargli più di una possibilità. Lasciatevi trasportare dalla sua sceneggiatura profonda e coinvolgente, dal suo gameplay loop intrigante e da un incantevole Giappone esoterico; sono sicuro che farete esperienza di un titolo memorabile e struggente che dimostra ancora una volta come Shinji Mikami e i sui colleghi siano tra le punte di diamante del gaming moderno.

Anche di fronte alla perdita, incontrare persone nuove ci dona qualcosa di inedito e inaspettato. Ghostwire: Tokyo non parla solo di morte, ma anche del rapporto che lega quest’ultima con ciò che c’è di positivo nelle nostre vite. È tutta una questione di equilibrio. – Kenji Kimura

Un ringraziamento speciale a Labcom e Bethesda




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Videogiocatore incallito, cinefilo dalla nascita, attore di teatro e batterista da diversi anni. Adoro approfondire qualsiasi cosa abbia a che fare con l'arte e l'audiovisivo: è difficile fermarmi quando inizio a scrivere o a parlare focosamente di ciò che amo.

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