Sono passati poco più di 3 anni da quel primo, criptico, trailer di Death Stranding che Hideo Kojima presentò sul palco dell’E3 destando subito moltissima curiosità, soprattutto a causa della turbolenta rottura con Konami e la conseguente fondazione del proprio studio, Kojima Productions. Già da quel filmato in CG, creato ancor prima di avere un motore grafico per il gioco, il pubblico si divise in estimatori estremi e detrattori preventivi, dilaniandosi via web a colpi di “Kojumbo Genius” contro “Incapace, Konami ha fatto bene”.
Arrivati all’uscita, lo scontro di opinioni non accenna ad indebolirsi e continua a generare una tale confusione online che molti, pur avendo visto gameplay e letto recensioni, ancora si domandano: “Ma in Death Stranding che si fa?”
Dopo aver completato ed analizzato il gioco in tutti i suoi aspetti, penso che riuscirò, almeno in parte, a convincervi a giocarlo. “In parte” perché spiegare un titolo del genere a parole è un’impresa estremamente complicata e prima di proseguire vi avverto già che, nonostante le belle (ed anche brutte) parole che userò per descriverlo, dovete necessariamente provarlo con mano per capire se faccia al caso vostro.
Iniziamo sfatando subito uno dei miti che avvolge Death Stranding sin dal primo teaser: sì, è un gioco a tutti gli effetti, le parti di gameplay superano abbondantemente quelle con le cinematiche (8 ore a confronto con le 40 totali del mio playthrough), quindi non è affatto un film interattivo come alcuni detrattori pensano, anzi, a conti fatti è il titolo di Kojima in cui si gioca di più. Sbarazziamoci anche della questione “walking simulator“: certo, essendo un gioco basato sulle consegne camminare è un’attività preponderante, ma è il modo in cui quest’attività è proposta che fa la differenza, rendendola dinamica e divertente.
In passato, spostarsi da un punto all’altro in un videogioco ha sempre rappresentato un momento di transizione, un movimento eseguito spostando pigramente la levetta dell’analogico. Qui ogni passo va fatto con cognizione di causa, studiando il terreno su cui ci si trova, bilanciando con i trigger posteriori il carico del protagonista Sam Porter Bridges (Norman Reedus) per evitare rovinose cadute, pianificando il percorso e scegliendo ogni volta nuovi strumenti per rendere i viaggi meno ostici.
Ciò che pone Death Stranding ad un livello superiore è un modo inedito di concepire l’open world: vista dall’esterno, la mappa di gioco potrebbe sembrare vuota ed inutilmente grande, con pochi punti di interesse rappresentati da città o insediamenti dove poter ricevere e completare le missioni. Grazie al focus del gameplay sul viaggio, invece, una mappa del genere risulta densissima di particolari e dopo qualche ora di gioco, prestandoci particolare attenzione, si scopre anche un level design molto più curato di quanto non ci si aspetterebbe.
Le cose che contano per il giocatore non sono tanto luoghi di interesse, npc o mostri, ma la variazione del terreno, nuovi ostacoli come sabbia, sassi, ghiaia, fiumi, neve, pendenze o depressioni, tutti da affrontare a piedi o con dei veicoli in base al proprio stile di gioco. I pericoli però non finiscono qui: c’è la cronopioggia, che non solo fa invecchiare qualsiasi cosa tocchi, ma permette anche la manifestazione delle C.A. (Creature Arenate), esseri incorporei che ci attaccheranno, inoltre dovremo vedercela con i Muli, corrieri impazziti che mireranno a rubarci i pacchi con ogni mezzo possibile.
Confrontandomi con altre persone che hanno giocato Death Stranding, ho appreso che qui ognuno è libero di adottare un proprio stile di gioco in base a ciò che preferisce, grazie anche ad un’altissima varietà di gadget. Si va dalla semplice scala fino a droni per il trasporto di carico extra, esoscheletri per potenziare la forza o la velocità di Sam. Abbondano, inoltre, le strutture da costruire sulla mappa di gioco: generatori per ricaricare veicoli ed esoscheletri, ponti, teleferiche, autostrade che facilitano notevolmente gli spostamenti; il bello è che sono sì costruibili in single-player, ma regalano le più grandi soddisfazioni nel bellissimo ed innovativo multiplayer asincrono.
Quest’ultimo espande il concetto dei messaggi di Dark Souls, andando a creare una rete di corrieri che, dopo aver sbloccato una determinata zona collegandola alla rete chirale (una sorta di internet), possono vedere ed utilizzare equipaggiamenti e costruzioni degli altri giocatori, votando con un like quelli più utili, che rimarranno nell’istanza della partita potendo persino essere potenziate e ricostruite, in aggiunta alla possibilità di riconsegnare ai box postali i carichi persi dagli altri giocatori o completando per loro delle missioni secondarie. L’autostrada invece segue un percorso predefinito, ma può (e deve) essere completata grazie agli sforzi di tutti i giocatori, portando materiali da costruzioni alle varie asfaltatrici nelle regioni e riuscendo così in un’impresa che giova a tutti, ma che sarebbe impossibile portare a termine da soli.
Rispetto al resto il combattimento, soprattutto quello a mani nude contro avversari “umani”, risulta particolarmente approssimativo e scarno, ma, trattandosi comunque di una parte ridotta del gioco, non è considerabile un problema quanto invece gli scontri con le Creature Arenate. Qualora, investiti dalla cronopioggia, dovessimo imbatterci nelle C.A. e non riuscissimo ad evitarle facendoci prendere, dovremo affrontare una boss fight con una creatura molto più grande, che in caso di fallimento creerebbe una voragine permanente sulla mappa.
Il punto è che in tutto il gioco questi mini-boss sono solo 2, hanno giusto un paio di mosse per attaccarci e non costituiscono assolutamente un problema in quanto, pur non avendo l’equipaggiamento per combatterli, sarà sufficiente scappare dalla loro zona per avere praticamente lo stesso effetto di una vittoria, con l’interruzione della pioggia e la scomparsa della creatura; certo, così facendo non si ricevono cristalli chirali (materiali di crafting) come nel caso di una vittoria vera, ma non valgono assolutamente la fatica di un combattimento lungo, noioso e sempre uguale.
Ciò che rovina queste sezioni è soprattutto la difficoltà che, pur essendo bilanciata nella parte delle consegne, in quella delle C.A. risulta fin troppo semplice anche alla massima opzione, andando così a vanificare anche l’effetto “ansia” dato dalla pioggia e dalle creature una volta compreso che, facendosi prendere, si hanno meno problemi che cercando di non farsi vedere.
Finalmente arriviamo agli aspetti artistici e narrativi del gioco, finora volutamente lasciati in secondo piano per concentrarmi prima di tutto sul gameplay, che vista la sua importanza e la gran confusione con cui molti ancora ne parlano meritava una degna spiegazione.
Tecnicamente il titolo è eccelso, presenta una delle migliori grafiche mai viste su PS4, con dei modelli mostruosi, soprattutto quelli degli attori realizzati con una motion capture straordinariamente realistica, e riesce a mantenere un framerate stabile nonostante i numerosi particellari a schermo. Unica nota negativa, ma inevitabile, sono le collisioni, specialmente quelle con i veicoli che a causa del terreno estremamente accidentato tendono ad incastrarsi facilmente, ma per fortuna basta la pressione di un tasto per eseguire un salto sul posto e liberarsi dalle compenetrazioni involontarie.
Parlando del design, che Kojima ha affidato come al solito al grandissimo Yoji Shinkawa, anche qui il titolo presenta una cura e una fantasia fuori dal comune, andando a creare uno degli immaginari fantascientifici più originali ed ispirati degli ultimi anni, che porta sicuramente una ventata d’aria fresca in un genere che altrimenti risulterebbe sempre stantio, fermo sui soliti cliché.
Il mood che permea tutto il gioco è straordinario, riesce a trasmettere una solitudine mai triste, ma riflessiva ed evocativa. Il merito va in particolare a scenari naturalistici da pelle d’oca (molti dei quali ispirati all’Islanda) e l’azzeccatissima colonna sonora originale composta da Ludvig Forssell, che mescola sapientemente i sound di Vangelis, Thom Yorke e Hans Zimmer, alla quale si alternano stupendi brani su licenza dei Low Roar presenti in moltissime fasi di gioco.
A livello narrativo probabilmente questa è la miglior storia mai scritta e diretta da Hideo Kojima, impreziosita anche da un cast da film hollywoodiano, che va a toccare in maniera non banale temi come la solitudine dell’uomo moderno, il rapporto con la morte, l’importanza della comunicazione e i nuovi modi di comunicare. Questo lo rende un po’ un “sequel spirituale” di Metal Gear Solid 2: Sons of Liberty, gioco del 2001 dove Kojima aveva teorizzato (prendendoci in pieno) la nascita dei social network e dell’internet di massa, con la sua inevitabile deriva populista fatta di fake news e più generalmente di “immondizia digitale” ed odio.
Proprio Death Stranding dimostra come, con un controllo esterno, i giocatori e quindi le persone in rete possano cooperare per raggiungere un obiettivo. Il multiplayer non offre in alcun modo la possibilità di distruggere l’operato degli altri, ma spinge necessariamente a collaborare per non restare completamente soli e isolati: limitando una “libertà”, permette a tutti di vivere aiutandosi l’un l’altro. Così facendo, Kojima dimostra la tesi pessimistica che da sempre cerca di avvalorare con tutti i suoi lavori: l’uomo cerca sempre una libertà, che però finisce per condurlo alla distruzione e all’odio reciproco; possiamo notarlo anche nel concetto di Outer Heaven della Metal Gear Saga.
Oltre che in questa metanarrazione, la trama in sé si dimostra ricchissima di dettagli, tutti egregiamente spiegati e mai con motivazioni campate per aria. Tutti i pezzi di un grande puzzle andranno pian piano ad incastrarsi fino a comporre l’ultima, bellissima cutscene da oltre un’ora e mezza, che non fa altro che confermare la qualità dell’opera. Non racconterò altro che non abbiate già visto nei trailer, poiché anche una sola parola in più rischia di essere uno spoiler involontario.
Death Stranding è assolutamente un grandissimo gioco, anche se non perfetto. Aspetti come il livello di sfida ed il combattimento ad esempio potevano essere sicuramente più approfonditi, ma parlarne come un capolavoro è del tutto appropriato. Parliamo di un’esperienza davvero originale sia nel gameplay che, soprattutto, nella costruzione dell’ambiente di gioco e nel multiplayer, elementi mai sviluppati in questo modo e certamente considerabili “game changing” per l’intera industria, con il potenziale per ispirare molte altre produzioni future.
Dopo lo scivolone con The Phantom Pain, Hideo Kojima ha dimostrato di essere ancora capace di regalarci perle di rara bellezza e di rivoluzionare il medium in quasi ogni sua uscita. Quando uscì, Metal Gear era solo “un gioco dove ci si nasconde invece di sparare”, poi sappiamo bene com’è andata; ecco, vederemo negli anni quanto Death Stranding rimarrà “un gioco dove si cammina e basta”.
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