Il mio amico Robot – La forza di un legame tra sogni, ricordi e nostalgia

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Il 2023 ha portato con sé alcune piacevoli sorprese per il cinema d’animazione, e tra un Nimona e un Inu-Oh spicca anche Il mio amico Robot (Robot Dreams in originale), una co-produzione franco-spagnola firmata dal regista iberico Pablo Berger, già autore del film muto Blancanieves del 2012. Dopo aver fatto incetta di premi Goya proprio grazie al suddetto film, il cineasta si è lanciato per la prima volta nel mondo dell’animazione 2D, puntando alto.

Il mio amico Robot infatti è stato candidato anche agli Oscar di quest’anno e, benché non abbia vinto, ha comunque fatto parlare di sé. Guillermo del Toro (La Fiera delle Illusioni, Cabinet of Curiosities), da sempre estimatore di certi prodotti, lo ha definito Bellissimo, inaspettato e tenero. Come Nimona, il lungometraggio è tratto da una graphic novel omonima, nata dalla penna di Sara Varon che, per l’occasione, ha lasciato carta bianca a Berger e ai colleghi dello studio Arcadia Motion Pictures. Il risultato finale è un adattamento molto peculiare ma rispettoso del materiale originale, una piccola storia sui due volti di un sentimento come l’amicizia, ovvero la sua forza compensata da una radicale fragilità.

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Dog è un cane che vive nella chiassosa e caotica Manhattan, ma la sua routine, al contrario, è ripetitiva e solitaria. Invidioso delle coppiette del suo quartiere e stanco di condurre un’esistenza grigia, decide – attratto da uno spot televisivo – di acquistare un Amica 2000, un robot da compagnia. L’automa, chiamato semplicemente Robot, prende vita nel suo appartamento e si dimostra subito un personaggio esuberante e affettuoso. In men che non si dica, tra i due nasce un’amicizia molto profonda e genuina.

Dog viene colto di sorpresa dall’energia apparentemente inesauribile di Robot che, affascinato da tutto ciò che lo circonda, impara pian piano a vivere come un vero cittadino newyorkese. La coppia trascorre così un’estate all’insegna del divertimento, tra pattinate a Central Park, passeggiate per la Grande Mela e traversate in metropolitana che incorniciano il prologo del racconto.

Il tutto subisce una svolta a settembre: il cane e il suo nuovo amico viaggiano fino a Ocean Beach, una grande spiaggia in pieno stile americano che ricorda l’iconica Coney Island. Qui, dopo un’intera giornata passata a nuotare, gli amici si stendono sulla sabbia per riposare. Arriva la sera, è tempo di rincasare, ma c’è un grosso problema: Robot non riesce più ad alzarsi in piedi, è bloccato a terra cosciente ma inspiegabilmente paralizzato. Dog, dopo il panico iniziale, decide a malincuore di abbandonare momentaneamente il compagno per tornare l’indomani con gli attrezzi giusti per salvarlo.

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Ciò che il protagonista non ha messo in conto, tuttavia, è la chiusura dell’intera spiaggia per la nuova stagione: purtroppo viene forzatamente separato da Robot, nonostante le molteplici e rocambolesche peripezie per tentare di recuperarlo. La riapertura di Ocean Beach è prevista per il 1° giugno, e i due quindi devono rimanere lontani per un anno intero. Riusciranno a ritrovarsi?

Il film vero e proprio dunque prende piede dopo questo brutto trauma e mostra ciò che – per forza di cose – avviene a seguito di eventi terribili come questi: la vita che va avanti inesorabile. Suo malgrado, Dog è gettato nuovamente nella vecchia routine, segnata in maniera indelebile dalla nostalgia e dalla mancanza dell’amico.

E Robot? Sfortunatamente non può fare altro che rimanere disteso sulla fredda sabbia… oppure no? Nei frangenti che lo riguardano diviene chiaro il titolo originale dell’opera, ovvero Robot Dreams: la progressione delle vicende viene condita da derive oniriche e metacinematografiche. Dog e Robot possono essere lontani nel corpo, ma non nello spirito, segno di un’amicizia che resiste allo spietato passare del tempo, superando anche lo spazio.

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Il mio amico Robot fonde abilmente avvenimenti reali e immaginazione, portando in scena due situazioni parallele: Dog che è obbligato ad aspettare il ritorno di quell’estate che tanto ha illuminato la sua vita – come il fedele Argo attende Ulisse – e Robot che vorrebbe tornare a casa da lui ma che non può fare altro che immaginare, appunto, cosa stia facendo il suo amico, affidandosi a sogni freudiani a occhi aperti. In questo, il film si dimostra splendidamente delicato nel delineare un’amicizia pura, rafforzata dal valore dei ricordi e dalla potenza dei desideri, fantasie in cui rifugiarsi quando si è soli e nel momento in cui l’assenza di una persona ci attanaglia senza lasciarci mai.

A proposito di tempo che passa, la storia insiste su un concetto semplice ma, personalmente, davvero affascinante: il chiedersi e rendersi conto di quante cose possono succedere nel giro di qualche attimo, giorno o mese. Il lungometraggio è una tesi sull’amicizia: mostra di cosa si tratta, come sboccia e come si sviluppa, per poi chiedere direttamente allo spettatore se può finire o ricominciare nonostante tutto.

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L’unione di tali elementi rende la sceneggiatura un mix tra il recente Past Lives con il suo inyeon, La La Land e Bojack Horseman. È chiaro che Manhattan, pur essendo frizzante e stimolante, logora chi ci vive attraverso la solitudine, tratto endemico di qualsiasi metropoli. A ciò si aggiungono – come sottolineato – alcune idee prese in prestito dalla pellicola di Damien Chazelle; una tra tutte, la storia d’amore che, per quanto bella e idilliaca, può interrompersi in qualsiasi istante e per i motivi più disparati.

Come se non fosse già sufficientemente palese, si affrontano tematiche sensibili. Tra queste, la dipendenza affettiva, specialmente se si parla di Dog che, nel suo faticoso tentativo di superare la perdita e di staccarsi dal passato – senza mai dimenticarlo – vive rapporti fugaci e poco sinceri con persone che entrano ed escono dalla sua vita senza lasciargli qualcosa di significativo, quasi volesse affidarsi all’insensata pratica del “chiodo scaccia chiodo”.

Andare avanti, si sa, non è mai facile e – nel campo del cinema d’animazione – un gigante come Hayao Miyazaki (Il ragazzo e l’airone), citando il celebre Paul Valéry, ci dice “Si alza il vento! Bisogna tentare di vivere“. Nel suo piccolo, Pablo Berger ci suggerisce lo stesso, intellettualmente ed emotivamente.

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Una delle peculiarità de Il mio amico Robot è la mancanza totale di dialoghi. Prendendo ispirazione da capostipiti del cinema come le disavventure di Charlie Chaplin e Buster Keaton o, in tempi più recenti, le memorabili storie di Mr. Bean, il film riduce il suo linguaggio all’essenziale, dimostrando che non c’è alcun bisogno di parlare per veicolare forti emozioni. Con giochi di sguardi, movenze elastiche e gag slapstick, un cane e un robot risultano più vivi e umani degli umani stessi.

A fare da sfondo a tutto ciò è una New York coloratissima e vibrante che ricorda molto da vicino la Zootropolis della Disney: gli animali che la popolano la riempiono di vita, allegria e di situazioni assai variegate, dai negozietti di Chinatown alle attrazioni di un luna park. La diversità della fauna riflette perfettamente il mix di culture ed etnie che popola la Grande Mela e questo rende le sue microstorie universali.

La creazione di questo melting pot perfetto si deve al talentuosissimo character designer Daniel Fernández Casas (Klaus) che non solo ha ridisegnato i protagonisti adattando il fumetto originale al medium cinematografico, ma ha anche dato alla luce la sopramenzionata giungla urbana con migliaia di animali e comparse dai design unici.

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L’estetica, sia della graphic novel che del film, prende spunto dalla cosiddetta “linea chiara” (ligne claire in francese) della scuola di fumetto franco-belga. Uno stile dal segno sottile, pulito ed elegante il cui padre è il celeberrimo Hergé, autore de Le avventure di Tintin. La realtà viene narrata e rappresentata usando un tratto leggero e continuo, colori piatti e pochissime ombre. Ogni componente si amalgama a dovere con la miriade di dettagli che decora le ambientazioni, complici le linee nere morbidissime e prive di tratteggi, sfumature o sporcature.

La regia dinamica di Berger – che non rinuncia a trovate interessanti come il panfocus – viene supportata sia dal direttore artistico José Luis Ágreda, sia – lato animazioni – dal bravissimo Benoît Feroumont, già capo animatore di quel capolavoro che è Appuntamento a Belleville di Sylvain Chomet, imperdibile per tutti gli appassionati della scuola franco-belga. Questo trionfo stilistico e cromatico viene coronato da una scelta attenta e omogenea delle musiche, ben dosate per ogni momento. A spiccare è l’iconico September degli Earth, Wind & Fire, brano su licenza che – riarrangiato dove serve – fa da ottimo leitmotiv al racconto, insieme ad accompagnamenti jazz, swing e shuffle a opera del prolifico compositore Alfonso de Vilallonga.

L’unico difetto che sento di dover evidenziare sta nel montaggio di Fernando Franco che, spesso e volentieri, fa un po’ troppo affidamento su una successione di siparietti perlopiù comici; personalmente avrei preferito insistere sul potenziale onirico di certi frangenti. Il motivo è presto detto: alcune scene, per quanto divertenti, non aggiungono spessore agli eventi e risultano fini a loro stesse, bloccando l’incedere della storia e facendo scricchiolare l’alto coinvolgimento emotivo. In breve, nonostante i 101 minuti di durata, qualcosa poteva essere tagliato.

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Sbavature drammaturgiche a parte, Il mio amico Robot resta un film delizioso nella sua incantevole semplicità. Una pellicola che, proprio come nella vicenda narrata, diviene un’amica capace di farci a pezzi emotivamente senza però ferirci. Una compagna che lascia belle sensazioni addosso, come mi era già capitato con Un altro giro di Thomas Vinterberg.

Parlando di cari amici – vicini, lontani, persi per strada o ritrovati – l’opera di Pablo Berger e Sara Varon mi ha riportato alla mente amori passati ma mai dimenticati, lasciando che mi riconciliassi con i sentimenti contrastanti che ruotano attorno alla perdita di una persona cara. I grigiori dati dallo sconforto e dal senso di abbandono passano con il ricordo di una giornata al mare o con le note di una hit estiva che risuona per strada. Tante piccole cose preziose che Robot Dreams trasforma nella sua bandiera, per regalarci un inno all’ottimismo e alla leggerezza.

Un ringraziamento speciale a I Wonder Pictures




Nefasto Articoli
Videogiocatore incallito, cinefilo dalla nascita, attore di teatro e batterista da diversi anni. Adoro approfondire qualsiasi cosa abbia a che fare con l'arte e l'audiovisivo: è difficile fermarmi quando inizio a scrivere o a parlare focosamente di ciò che amo.

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