Guillermo del Toro’s Pinocchio, un inno alla vita e all’antifascismo

pinocchio di guillermo del toro netflix

Voto:

Ogni regista sogna di realizzare il suo adattamento de Le avventure di Pinocchio. Storia di un burattino di Carlo Collodi. Ciò traspare dalle parole del buon vecchio Guillermo del Toro (La forma dell’acqua, La Fiera delle illusioni, Cabinet of Curiosities) che dal 2008 custodiva nel cassetto questo sogno quasi infantile, in principio ostacolato dagli altissimi costi di produzione, poi salvato in corner da Netflix. Sappiamo che il regista messicano non è il primo ad aver nutrito tale desiderio, infatti i film – destinati al cinema e alla TV – dedicati allo scapestrato burattino sono ormai molteplici, e l’ennesima riproposizione di questa fiaba potrebbe far storcere il naso. Il celeberrimo Pinocchio della Disney del 1940 – pieno di licenze poetiche – riproposto di recente in una terribile versione live-action da Zemeckis, ha dato il via negli anni ad altre riduzioni più o meno riuscite. Tra queste il patetico lungometraggio del 2002 con Roberto Benigni come protagonista – poi tornato nelle vesti di Geppetto nel Pinocchio di Matteo Garrone – o Le avventure di Pinocchio, ben più riuscito sceneggiato Rai del 1972, a cura di Luigi Comencini.

Pinocchio, Pinocchio e ancora Pinocchio! Sbuca dalle fottute pareti (e tocca anche i videogiochi, conoscete Lies of P?). Dinnanzi a questa saturazione del mercato è impossibile non essere scettici persino con un talentuosissimo cineasta come del Toro, eppure il suo film in stop-motion si erge al di sopra di tutto ciò che è venuto prima, mettendo in scena una storia di rara originalità e di cui Collodi potrebbe andare orgoglioso.

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La sceneggiatura, scritta a quattro mani da Guillermo del Toro stesso e Patrick McHale (Adventure Time), opera immediatamente una prima, importante variazione sulla collocazione temporale del racconto che noi tutti conosciamo. Se infatti il setting del romanzo di Collodi si può individuare in Italia tra il 1859 e il 1861, Guillermo del Toro’s Pinocchio è ambientato nel bel mezzo del ventennio fascista. Una scelta molto interessante – che approfondirò a breve – a cui il regista messicano non è nuovo, basti pensare alla dilogia dallo spiccato impegno politico composta da La spina del diavolo Il labirinto del fauno (di cui troviamo numerosi richiami qui).

Questo cambiamento influisce sia su tutta la messa in scena, sia sulle premesse della narrazione: Pinocchio (Gregory Mann), infatti, non nasce per caso da un pezzo di legno parlante come nel libro, bensì viene scolpito da Geppetto (David Bradley) – il classico falegname vedovo ma rispettato e benvoluto da tutti – con il preciso intento di rendere onore a Carlo, il figlio che l’uomo ha perso anni prima a causa di un bombardamento durante la Grande Guerra. Il genuino legame padre-figlio tra il vecchio e il piccolo Carlo viene mostrato attraverso uno struggente flashback che apre il film, un modo ottimo per rendere subito credibile e sfaccettato il personaggio di Geppetto, un deuteragonista sofferente e schiacciato da numerosi fardelli, poiché non riesce a superare la perdita dell’amato figlioletto.

Tornati nel Ventennio, viene presentato anche Sebastian il Grillo (Ewan McGregor), narratore, mentore di Pinocchio e simpatico comic relief al centro di gag slapstick. La creazione del burattino, al contrario, gode di una scena memorabile dalle tinte orrorifiche, atte a mostrarlo sotto una luce inedita: come un’inquietante marionetta snodabile. Inedita è persino la figura dell’immancabile Fata (Tilda Swinton) che infonde la vita nel protagonista: sfruttando il suo folle genio, del Toro la immagina non più come un’incantevole donna dai capelli lucenti o il fantasma di una bambina deceduta, ma come uno spirito dei boschi antropomorfo, molto vicino esteticamente alle raffigurazioni medievali e bibliche dei Serafini. Una ricerca iconografica eccellente.

guillermo del toro pinocchio fata
Mistica e angosciante a dir poco.

Insomma, il character design riconoscibile e personale presenta la fiaba di Collodi come qualcosa agli antipodi rispetto alla nota formula Disney: un calderone di spaventosi freaks che interagiscono tra di loro nel paesino italiano in cui parte delle vicende sono ambientate. A questo proposito, inizialmente Pinocchio viene visto dalla popolazione – Geppetto incluso – come un mostro, una manifestazione del Diavolo. È intrigante constatare come una particolare attenzione sia stata riposta nel riproporre il bigottismo di certe realtà nostrane: cittadine in cui gli abitanti hanno paura di ciò che non conoscono e lo ripudiano mossi solamente da errati pregiudizi. Davanti a questa discriminazione, Pinocchio pone al padre un ragionevole quesito: perché la gente ama la raffigurazione di Gesù su un crocifisso, e odia me che sono un pupazzo di legno proprio come lui? Un attacco subdolo ma fortissimo alla tradizione cristiana, alle pratiche superstiziose e alla sciocca idolatria che portano a venerare uno sterile simbolo su una croce, benché emblema del sacrificio. Due temi cardine – il sacrificio e la cieca venerazione – che tornano a più riprese.

Di subordinazione forzata si parla anche a causa dell’ambientazione guerresca: uno dei villain è Podestà (Ron Perlman) – l’Omino di burro nel romanzo – un gerarca fascista, padre di Lucignolo (Finn Wolfhard), che intravede in Pinocchio delle ottime potenzialità da Balilla, dato il suo essere una marionetta immortale. Quest’ultimo, nel corso delle varie peripezie, viene quindi costretto ad arruolarsi tra le fila della Gioventù Italiana del Littorio – dove finisce anche il sopracitato Lucignolo, vittima del regime e del padre da compiacere – anche se si mostra fortemente disobbediente in quanto libero pensatore. “Credere, obbedire, combattere” questo lo slogan della tossica propaganda fascista che attanaglia il paese: disciplina, ordine e virilità sono valori che Pinocchio, tuttavia, non riconosce come suoi. A differenza dei suoi compaesani e dei suoi “commilitoni”, non ha paura di dire di no e provoca il Podestà con parole taglienti che è possibile parafrasare così: “Mi intimate di ubbidire, senza rendervi conto che anche voi siete dei burattini che venerano un pupazzo“. Del Toro in persona aggiunge: “La virtù di Pinocchio è la disobbedienza. In un periodo storico in cui tutti si comportano come marionette, lui fa il contrario”.

Della satira al vetriolo che, considerato lo scenario politico attuale, arriva con un tempismo da non credere. Il nostro eroe di legno, grazie alla sua furbizia e sulle note di Giovinezza, riesce a prendere per i fondelli persino Mussolini in persona – che compare per davvero, senza censura alcuna – imitando la sua mimica caricaturale (un tributo al cortometraggio The Ducktators del 1942). Come se non bastasse, è affascinante notare come il proverbiale Paese dei balocchi sia stato trasformato in un campo di addestramento per giovani fascisti, tempestato di inequivocabili “M”. Al contrario, è avvilente pensare che per veicolare del serio ed esplicito antifascismo sia servito un regista messicano (con Pinocchio!); una critica sociale così, prodotti italiani come Sono tornatoFreaks Out Rapiniamo il Duce possono solo sognarsela.

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Secondo antagonista irrinunciabile è il Conte Volpe (Christoph Waltz), che in questa versione della storia è un burattinaio, padrone di un circo itinerante. Sostituisce totalmente l’iconico Mangiafuoco ed è accompagnato da una buffa scimmia parlante di nome Spazzatura (Cate Blanchett), che a sua volta prende il posto del Gatto. Come è noto, la Volpe inganna più volte Pinocchio, allontanandolo da Geppetto e costringendolo a diventare un fenomeno da baraccone.

Quanto a Geppetto, il rapporto che instaura con il nuovo figlioletto è molto più approfondito rispetto alle vecchie iterazioni: all’inizio vede la sua creazione solo come un ennesimo fardello, per poi rendersi conto dell’amore che prova; un sentimento che lo porta a viaggiare fino a Catania per salvare il piccolo dalle grinfie del circo. La loro parabola è introspettiva, evita egregiamente di essere protagonista-centrica e porta a chiedersi quale sia il peso dell’essere un bambino vero, cosa voglia dire essere un padre. Il cammino di Pinocchio è ricco di errori, ma stavolta vengono mostrati anche gli sbagli paterni.

Tra variazioni, aggiunte e tagli, una è forse la novità più impattante di tutte è il personaggio di sorella Morte (che sia una velata citazione al Cantico delle creature di Francesco d’Assisi?). Questa entità ha le sembianze di una misteriosa chimera e non perde occasione per impartire al protagonista preziose lezioni d’ispirazione senecana sul valore del tempo e sul significato del sacrificio a favore del prossimo. Che senso ha vivere in eterno, se gli affetti intorno a noi invecchieranno e ci lasceranno soli? L’insegnamento più grande – in un regno dei morti spettacolare per scenografie, palette cromatiche ed eccentricità – è carpe diem.

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Tra i balocchi del Conte Volpe compaiono anche alcune delle rinomate maschere della commedia dell’arte, come Colombina e Pulcinella.

Venendo alle considerazioni prettamente tecniche, un titanico comparto artistico incornicia una storia che alterna momenti gioiosi e divertenti a sequenze drammatiche non edulcorate. L’obiettivo di Guillermo del Toro e dell’ingegnoso collaboratore Mark Gustafson – già direttore dell’animazione in Fantastic Mr. Fox – è stato restituire quello spettacolo magnifico che solo l’animazione passo uno può orchestrare, fatto di imperfezioni come il pulviscolo sul set, l’effetto moiré e lo sfarfallio delle pellicce e dei tessuti. Una tecnica spiccatamente materica atta a palesare il lavoro pratico dietro ogni frame: un lavoro espressivo che lascia trasparire il lato squisitamente artigianale delle fluide animazioni fatte a mano. Le maestranze di cui i registi si sono circondati hanno intagliato, dipinto, scolpito con una raffinatezza rara: tutte le scenografie sono ricche e dettagliatissime. Non mancano sgargianti fondali colorati – rigorosamente di tela e non digitali – e un uso sapiente di materiali variegati (dalla sabbia alla roccia, passando per la lana) così da donare all’insieme una vivida tangibilità.

Il gruppo di scene che mette in mostra la maestria degli artisti è la leggendaria lotta con la balena di disneyana memoria che qui – rispettando Collodi senza rinunciare ad una simpatica modifica – non è altro che un enorme e caricaturale pesce abissale che si destreggia nell’oceano deliziando gli occhi. Ogni capitolo è supportato da una regia lodevole per la scelta dei vari angoli di ripresa che sottolineano a dovere ogni momento topico; pregevole anche la direzione della fotografia di Frank Passingham (Galline in fuga, Kubo e la spada magica), variopinta così come contrastata e drammatica dove serve.

Seguono musiche e sonoro di alta qualità. Le prime firmate dal celebre Alexandre Desplat (Piccole donne, The French Dispatch) che – sfruttando quasi esclusivamente strumenti di legno come archi, pianoforte e arpa – offre un accorato tributo al romanzo del 1883 (basti ascoltare brani come Carlo’s Theme). Allo stesso modo, le canzoni dove i personaggi cantano – per esempio Ciao Papà – sono piacevoli intermezzi tra una svolta di trama e l’altra. Ottimo anche il doppiaggio in lingua originale da parte di tutti i grandi attori coinvolti, che si dimostrano eclettici caratteristi.

guillermo del toro pinocchio burattino di legno

Guillermo del Toro’s Pinocchio è un film più sfaccettato di quanto si potrebbe credere: affronta temi come la perdita, l’amore, il dono della vita, la morte e le imperfezioni di un rapporto padre-figlio. “Chi ha detto che per diventare un bambino vero Pinocchio deve trasformarsi per forza in un umano in carne e ossa? Per essere considerato umano, deve semplicemente comportarsi come tale“, così del Toro parla del burattino più famoso del mondo: l’importante è essere sé stessi, amare il prossimo per ciò che è – persino nella sua stranezza – non per ciò che vorremmo che fosse.

Un finale insolito, dolceamaro e filosofico – perfetto per costruzione drammatica, musiche e dialoghi commoventi – chiude il cerchio consegnando allo spettatore molteplici messaggi su cui riflettere. In conclusione, questa nuova iterazione della magnum opus di Carlo Collodi è un film adatto a tutti che, secondo il sottoscritto, dovrebbe soppiantare ogni altro lungometraggio dedicato al buon Pinocchio, presente e futuro. Guillermo del Toro e Mark Gustafson consegnano alla storia del cinema una pellicola di raro splendore, imperdibile e, perché no, una visione obbligatoria in tutte le scuole per tramandare ai bambini, con rinnovata freschezza, l’immortale fiaba del burattino dal naso lungo.

Un ringraziamento speciale a Netflix




Nefasto Articoli
Videogiocatore incallito, cinefilo dalla nascita, attore di teatro e batterista da diversi anni. Adoro approfondire qualsiasi cosa abbia a che fare con l'arte e l'audiovisivo: è difficile fermarmi quando inizio a scrivere o a parlare focosamente di ciò che amo.

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