Freaks Out

freaks out mainetti recensione

Voto:

Qual è la differenza tra stile e ripetizione?

Gabriele Mainetti, dopo 6 anni da Lo chiamavano Jeeg Robot, torna al cinema con un kolossal spettacolare e grandioso. In Freaks Out siamo nella Roma della Seconda Guerra Mondiale; quattro fenomeni da baraccone dotati di poteri fuori dal comune (Claudio Santamaria, Aurora Giovinazzo, Pietro Castellitto e Giancarlo Martini), cercano di trovare una nuova direzione dopo che la loro guida circense (Giorgio Tirabassi) li ha apparentemente abbandonati. Incroceranno le strade con Franz (Franz Rogowski), un pianista con sei dita per mano in grado di avere fugaci visioni del futuro, e la cui più grande ambizione è quella di servire il Terzo Reich di Adolf Hitler.

Freaks Out Fulvio, Cencio e Mario

D’accordo, è vero, un gruppo di personaggi con superpoteri acquisiti fin dalla nascita che hanno a che fare con i nazisti è un concept che potrebbe far suonare qualche campanella nella maggior parte del pubblico. Del resto, lo faceva anche l’incipit di Lo chiamavano Jeeg Robot. La struttura del film, infatti, è lineare e lo sviluppo di Matilde, la protagonista, piuttosto scontato.

Fortunatamente, c’è molto di più. Di fatto una volta che ci si è alzati dalla poltrona del cinema (andate al cinema!) dopo 2 ore e mezza di film, ci si sente divertiti. I tecnicismi non mancano: dal piano sequenza iniziale del bombardamento a scelte estetizzanti di soddisfacente composizione, ma tutto è messo in secondo piano, e prevale la voglia di vedere la scena successiva, di sentire la prossima battuta, di scoprire il destino dei personaggi. Il film ci costringe a tornare spettatori più “puri”, meno cerebrali e riflessivi, ed è lì che conquista.

Subentra, poi, l’inevitabile gioco di citazionismo. Dico inevitabile perché lo avevamo già visto con Lo chiamavano Jeeg Robot, che attingeva a piena mani dalla cultura pop fumettistica. Qui il gioco si amplia, pesca dallo Zampanò di Fellini (con un tema musicale furbescamente simile a quelli di Nino Rota), dai paesaggi neorealistici, dalla salsa scioccante e parossistica tarantiniana. Eppure questi omaggi non risultano mai posticci, mai tronfi, ma si perdono nell’amalgama, diventano complice parte del tutto. Questo “rimandare a”, permette inoltre al film di snodarsi e districarsi cambiando anche linguaggio di genere, diventando, per esempio nella lunga battaglia finale col treno e l’arrivo della cavalleria, un film western.

freaks out franz

Punto di forza ineccepibile di tutto il racconto rimangono comunque i personaggi, non solo quelli principali, per i quali la simpatia è inevitabile, ma anche tutto il micro-verso di “freaks” che gravitano loro attorno, compreso Franz, il cattivo della storia. È proprio vera la massima che, se il villain è ben fatto, si ha già in tasca metà del lavoro: dalle confuse visioni del futuro, Franz riporta immagini e, soprattutto, musiche anacronistiche. Godremo così di una versione di Creep dei Radiohead adattata per pianoforte e di altri pezzi storici ancora mai scritti, che vivono precocemente attraverso le dodici dita del musicista. Non solo: una centellinata regressione, un ritorno all’infantilità che culmina nel finale, riesce a rendere Franz spaventoso nella sua imprevedibilità; è un bambino che gioca con le pistole.

Arriviamo dunque alla scrittura, croce e delizia di Freaks Out, a differenza del film precedente del regista (e sceneggiatore), nel quale era chiaramente un punto forte. L’equilibrio tra battuta ad effetto e “burinata” è quasi sempre rispettato, ma in alcuni casi si scivola nell’eccesso. Insomma, non tutte le arguzie centrano il bersaglio. Ed è vero che, forse, si indugia un po’ troppo sulla trita e macchiettistica descrizione dei nazisti, che sì, sono cattivi, ma sciocchi. C’è però da tenere in mente che, quando si raccontano storie di questo tipo, abbiamo un’eredità narratologica da considerare, un bivio che appare quasi inevitabile: dipingere i nazisti, appunto, come in Freaks Out, oppure redimerli attraverso il pentimento. Trovo che la scelta fatta per questo tipo di racconto sia ad hoc e, nonostante l’aspetto caricaturale, ci mostri atti molto crudi e spogliati di qualsiasi ironia; è il caso dell’esecuzione a sangue freddo di un ragazzino disabile nella prima metà del film.

freaks out personaggi

Quindi, funziona tutto? Quasi. Certi momenti risultano gratuiti e forzati, alcune relazioni sbocciano troppo presto, e determinati personaggi hanno poco respiro. Il risultato è comunque quello che tutti ci aspettavamo da Mainetti dopo Lo chiamavano Jeeg Robot: un film che mischia italianità e cultura pop senza codardia, senza fumo negli occhi, con uno stile autoriale molto chiaro e preciso.

Ecco che allora torniamo alla domanda iniziale: qual è la differenza tra stile e ripetizione? Freaks Out è semplicemente un Jeeg Robot più grande, più decorato e più costoso? Assolutamente no. La differenza tra stile e ripetizione è semplice, e trova il suo fulcro nel messaggio: Freaks Out porta l’impronta registica di Gabriele Mainetti, ma si distacca dal suo film precedente per tematiche e idee, diventando altro, autonomo.

Resta un mistero come siano bastati 12 milioni di euro per girare un mastodonte simil-hollywoodiano come questo. Ancora una volta, abbiamo la conferma che un modo diverso (non sostitutivo!) di fare cinema in Italia è possibile e, anzi, necessario.




Nasce a Firenze nel '91, è autore di fumetti e docente di storytelling all'accademia di cinema di Firenze.

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