Mank, lo straordinario omaggio di David Fincher alla settima arte

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Quando ci si ritrova davanti a un così sincero e intenso atto d’amore verso il cinema e la sua storia, è difficile – almeno per me – spendere parole sufficientemente adatte in merito, che possano racchiudere in una recensione tutto il calore e la forza che un’opera come questa porta con sé. Tuttavia, proprio per l’affetto smisurato che provo per la settima arte, tenterò di parlarvi adeguatamente di Mank, l’undicesimo film di David Fincher.

Victorville (California), 1940: l’ex-drammaturgo, ora sceneggiatore Herman Mankiewicz – a seguito di un doloroso incidente in auto – si rintana in un bungalow nel deserto. Al riparo dagli asfissianti studios americani, durante la sua convalescenza intraprenderà una lotta contro il tempo per dare vita – in appena sessanta giorni – alla monumentale sceneggiatura di quel capolavoro immortale che è Quarto Potere di Orson Welles. Immerso nei fumi della sua dipendenza dall’alcol e grazie al prezioso aiuto della segretaria Rita Alexander (Lily Collins), tenterà ciò che per qualsiasi altro scrittore parrebbe impossibile.

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Ci rendiamo subito conto della grande potenza immersiva della pellicola: il film si apre con una breve dissolvenza, delle auto nere percorrono a velocità sostenuta una strada sterrata e polverosa, vediamo il cartello di Victorville e una leggera ma incalzante colonna sonora orchestrale commenta la scena. Non siamo più nel 2020: grazie a pochissimi elementi, Fincher riesce a trasportarci nelle atmosfere di un’America che non esiste più. Poco dopo facciamo la conoscenza dello scrittore, interpretato da un Gary Oldman in grande spolvero; sembra che il personaggio gli sia cucito addosso. La mimica facciale e gestuale, suo marchio di fabbrica di stampo teatrale, inquadrano subito il tipo di uomo che abbiamo davanti: uno sceneggiatore dalla verve sagace e pungente, conscio delle sue capacità.

Non tarda a presentarsi – con una telefonata velatamente intimidatoria – il “ragazzo d’oro della radioOrson Welles (un convincente Tom Burke). Il cineasta, all’epoca di soli ventiquattro anni, si mostra intransigente; la sua figura è stata resa dal regista in maniera decisamente minacciosa, e questo dà l’idea di quanto Mank sia strettamente sorvegliato: la sceneggiatura va scritta e l’orologio ticchetta inesorabile. Così, grazie ad un intreccio di trama basato su continui flashback che ricordano – non a caso – l’originale Quarto Potere e la sua narrazione fatta di ricordi, abbiamo modo di esplorare le vicende che hanno portato alla stesura dell’atteso film: l’ambientazione è prevalentemente quella degli storici studi hollywoodiani del 1934, in piena Grande Depressione.

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Lo scorrere degli eventi è gestito tramite brevi sezioni separate nel tempo e nello spazio: c’è un’alternanza, come detto, tra la Hollywood delle grandi major e il rifugio di Mank. Ciò dà modo allo spettatore di capire qual è stata la genesi del lavoro dello scrittore e cosa (o chi) lo ha ispirato.

A questo proposito, l’immersione negli anni ’30 è totale: c’è una salda sinergia tra costumi e scenografie (equiparabili a C’era una volta a Hollywood) – curati rispettivamente da Trish Summerville (Millennium – Uomini che odiano le donne) e da Donald Graham Burt (Mindhunter) – e la vibrante colonna sonora realizzata da un maniacale Ren Klyce (Fight Club, Star Wars VIII), in cui non mancano elettrizzanti brani swing e jazz dalla patina old school (a tratti mi sembrava di sentire Gene Krupa in Sing, Sing, Sing).

È tutto estremamente vivo e convincente, la regia posata ma fortemente attenta al dettaglio di David Fincher non può che dare quel tocco da maestro in più: ogni inquadratura è pregna di quell’estetica da “vecchia scuola”, alcune sono veri e propri quadri. Per non parlare poi della fotografia di Erik Messerschmidt (Mindhunter): lo splendido bianco e nero degli obiettivi Leica, il rapporto 2.2:1, l’utilizzo del panfocus, il montaggio tramite dissolvenze teatrali a nero e il recupero di elementi estetici da grandi classici come Casablanca o La morte corre sul fiume, rendono Mank un tributo a cuore aperto al cinema che ha fatto la storia e a Quarto Potere stesso. Azzardo dicendo che il vero Welles ne sarebbe orgoglioso.

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I rimandi alla cinematografia di una volta non finiscono qui. Il film offre la possibilità di sbirciare dietro le quinte dell’età dell’oro di Hollywood, ci mostra tutte le fatiche e le angherie alle quali le maestranze dovevano sottostare. La parabola degli studios durante la crisi economica è chiara: si è in cerca di un nuovo tipo di intrattenimento che superi i prodotti di serie B. Hanno posto, nel ruolo di coprotagonisti e antagonisti, o come menzioni nei vari dialoghi e situazioni, memorabili personalità del mondo dello spettacolo come Josef von Sternberg, i fratelli Marx, Irving Thalberg e Louis B. Mayer.

Quest’ultimo, co-fondatore dello studio MGM, ricopre il ruolo di antagonista: a capo della sua “fabbrica dei sogni“, è un repubblicano deplorevole e disonesto a caccia di denaro; lo interpreta un marmoreo Arliss Howard, che riesce a rendere il magnate davvero odioso. Insieme al collega Thalberg (Ferdinand Kingsley) e allo spregevole William Randolph Hearst (un glaciale Charles Dance) ostacolerà il lavoro di Mankiewicz. Com’è noto, infatti, Quarto Potere prende aspramente di mira proprio il ricchissimo editore Hearst.

Louis Mayer (al centro) illustra le politiche aziendali della MGM

Nel bel mezzo della corsa al monopolio di un’industria in crisi – fatta di frecciatine reciproche tra case di produzione come Paramount, Universal, RKO e Warner Bros. – e le incombenti elezioni governative che potrebbero ribaltare l’America, Herman Mankiewicz costruisce numerosi rapporti con colleghi e star. Una tra tutte, l’ammaliante attrice Marion Davies (interpretata da Amanda Seyfried), che svolgerà un ruolo chiave nella nascita della sceneggiatura e negli eventi del film, essendo la storica amante del perfido Hearst.

La creazione di Herman deve scendere a patti con lo status quo e l’intero establishment cinematografico, un universo pulsante di personaggi e tensioni. Il suo “gigantesco groviglio” – per citare il collega John Houseman nel film – pretende molto dal pubblico americano e rispecchia il caos nella mente dello sceneggiatore. D’altronde “non si può cogliere la vita di un uomo in sole due ore“: con le sue riprese il regista restituisce tutta la magnificenza e il peso storico alla base della creatura di Orson Welles, creando a sua volta un lungometraggio imponente.

Imponente, in questo caso, non vuol dire tedioso. Il ritmo si avvicina alla perfezione: i momenti più critici e tesi della trama sono gestiti alla grande, con un trattamento che mi ricorda quello del famoso Zodiac, sempre di David Fincher. A rispecchiare quanto detto, vi è una delle sequenze finali (da manuale) dove Gary Oldman sfodera tutte le sue impetuose doti attoriali.

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L’ipnotica Marion Davies (a sinistra) in compagnia di Mank

Se con Citizen Kane Welles ha voluto narrare la vita di William Randolph Hearst, Fincher ha dato alla luce il suo Citizen Mank: un colossale omaggio che rende onore alla figura del dimenticato Herman Jacob Mankiewicz, il cui nome non compare nei titoli di coda del capolavoro di Welles.

Mank è cinema, nella sua forma più pura, elegante e piena d’amore. Un film che va visto e rivisto per assorbirne ogni attimo. Con la speranza che Netflix possa distribuire presto la pellicola sia nelle salequello è il suo posto – sia in home video, spero di avervi incuriosito almeno un po’. Spero che anche voi lettori possiate tuffarvi nell’avvolgente magia della settima arte e scoprirne l’affascinante universo grazie a questo film.

Un ringraziamento speciale a Netflix




Nefasto Articoli
Videogiocatore incallito, cinefilo dalla nascita, attore di teatro e batterista da diversi anni. Adoro approfondire qualsiasi cosa abbia a che fare con l'arte e l'audiovisivo: è difficile fermarmi quando inizio a scrivere o a parlare focosamente di ciò che amo.

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