Civil War, Alex Garland e il significato delle immagini in tempo di guerra

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Alex Garland è uno dei registi più interessanti della nuova ondata del cinema americano, nonostante la nazionalità britannica. La sua carriera è iniziata come scrittore e sceneggiatore, con gli script di 28 Giorni Dopo e Sunshine di Danny Boyle, che precedentemente aveva diretto anche The Beach (tratto proprio dal primo romanzo di Garland), ma anche l’adattamento cinematografico del libro di Kazuo Ishiguro Non lasciarmi, diretto da Mark Romanek. Il suo debutto alla regia non è accreditato, ma come ormai è ben noto risale al film Dredd del 2012, comunque scritto da lui, di cui ha preso le redini dopo l’abbandono del precedente regista Pete Travis, al quale infine è stato attribuito il lavoro nonostante l’assenza in sede di montaggio.

Questo banco di prova gli è stato sicuramente utile per realizzare la sua prima vera opera da regista, Ex Machina, seguita poi dall’adattamento del romanzo di Jeff VanderMeer Annientamento e dall’incursione nell’horror con Men, senza contare la miniserie Devs, sempre scritta e diretta da lui, costruendo così una carriera principalmente basata sull’esplorazione del cinema di genere, sia esso fantascientifico o orrorifico.

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Civil War è il film più costoso di sempre per A24 (50 milioni di dollari), e l’ultima opera del regista inglese. L’ultima forse anche in senso definitivo, almeno alla regia, viste le sue recenti dichiarazioni in merito al non voler dirigere altri film nel prossimo futuro. Questo però non significa che Garland intenda ritirarsi dal mondo del cinema, anzi, ha già altri progetti in ballo tra cui Warfare, film di guerra che co-dirigerà insieme all’esordiente alla regia Ray Mendoza – supervisore delle tecniche militari per Civil War – dove però si vede più come una figura di supporto che un vero e proprio co-regista, e quindi non è annoverabile al 100% tra i suoi progetti. Si direbbe che Garland voglia tornare per un po’ a occuparsi solo di sceneggiatura, avendo già iniziato a lavorare a quella di 28 Anni Dopo, sempre per Danny Boyle.

Tornando a noi, Civil War riporta Garland verso l’esplorazione dell’apocalisse, che questa volta non parte da un assunto fantascientifico ed enorme come quello di 28 Giorni Dopo, bensì da qualcosa di molto più verosimile e circoscritto: una nuova guerra civile negli Stati Uniti. Arrivati al terzo mandato dell’attuale Presidente (Nick Offerman), gli Stati si spaccano tra Lealisti (coloro che sono rimasti a favore del governo degli Stati Uniti, Nord-Est e Centro), Forze dell’Ovest (Texas e California), Alleanza della Florida (tutti gli Stati del Sud-Est) e Nuovo Esercito del Popolo (tutti gli Stati del Nord-Ovest), creando infiniti fronti di guerriglia attraverso tutto il territorio ex-statunitense. Sono mesi ormai che il Presidente non si fa più vedere, ma nonostante questo i Lealisti continuano a effettuare bombardamenti con raid che colpiscono anche i civili, e a loro volta le altre fazioni commettono indicibili crimini di guerra pur di continuare a combattere.

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Nonostante il complesso scenario politico, Garland non vuole favorire uno schieramento in particolare, anzi, ci chiede di seguirlo insieme ai suoi personaggi alla ricerca della verità e della complessità che nei conflitti viene sempre offuscata. La protagonista è infatti Lee (Kirsten Dunst), una famosa fotografa di guerra che insieme ai suoi colleghi, il reporter Joel (Wagner Moura) e l’anziano giornalista Sammy (Stephen McKinley Henderson), decide di mettersi in viaggio verso Washington per intervistare il Presidente prima che le Forze dell’Ovest sfondino il fronte e lo uccidano, vincendo la guerra. A questi personaggi si aggiungerà Jessie (Cailee Spaeny), giovane fotografa in erba che vorrebbe seguire le orme di Lee e che, nonostante le remore di quest’ultima, riesce a convincere gli altri a farsi portare in questo lungo e pericoloso viaggio.

La struttura da road movie in questo caso si ibrida perfettamente alla tematica di fondo. Lee e tutto il suo gruppo sono giornalisti, e se da un lato ricercano la verità, dall’altro faranno immancabilmente una scelta su cosa pubblicare e cosa lasciare da parte, non solo secondo il loro gusto ma soprattutto sulla base di cosa credono sia più importante nella costruzione del report. Al contempo, la struttura di un road movie è sempre basata su “tappe importanti“, momenti salienti che – montati in sequenza – danno l’impressione di vivere un viaggio tagliando le parti noiose. Garland in questo senso compie lo stesso lavoro dei suoi personaggi, creando e costruendo un viaggio secondo la propria lente (quella del cinema), così come quello di Lee e soci sarà – nella finzione narrativa – ricostruibile e narrabile a partire dalle loro lenti.

Il pubblico quindi viene messo nella posizione di guardare un mondo controllato dall’obiettivo dei personaggi, più che quello “reale” al di fuori dell’inquadratura. Infatti, ogni foto scattata nei luoghi del loro passaggio può ricostruire il loro viaggio, la loro realtà, che sarà però inevitabilmente parziale e soggettiva nonostante la pretesa di voler rappresentare la verità. Questo soprattutto alla luce di un discorso che il personaggio di Kirsten Dunst fa alla giovane Jessie mentre è intenta a sviluppare le proprie foto, secondo cui solo una su trenta, in media, vale la pena di essere pubblicata, sia per la bellezza dell’inquadratura che per il suo valore narrativo.

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Questo cortocircuito, che porta a scegliere la foto “migliore” in un contesto dove la realtà non dovrebbe essere filtrata, allontana per forza di cose il focus dalla verità per spostarlo sulla ricerca di significato: nel momento in cui facciamo una scelta, di fatto eliminiamo ogni pretesa di oggettività poiché questa viene filtrata dalla nostra soggettività, già a partire da dove poniamo l’obiettivo, delimitando il campo e il fuori campo e lasciando fuori quello che non ci piace. Se poi prendiamo il contesto traumatico della guerra, in cui si vive un eterno presente fino ai periodi di stasi o di fine del conflitto, la creazione della memoria traumatica e la ricerca di un senso per tutte le atrocità che si sono viste avviene proprio quando tutto è terminato e si può iniziare a pensare.

Lee dice a Jessie che i reporter “Non si fanno domande, loro riportano affinché gli altri se le facciano“, ma la fallacia di questo principio nasce proprio dalla natura umana: se idealmente il giornalismo dovrebbe essere così, l’essere umano anche senza porsi domande sicuramente si darà delle risposte, soprattutto in contesti stressanti e traumatici come quelli. È lì che inizia la memoria, e in questo caso c’è la selezione della foto scattate, in cui viene creata la narrativa che vogliamo e “montiamo” la sequenza che più risponde a quelle domande che in realtà non dovremmo porci, ma a cui diamo un senso per non impazzire e continuare a tirare avanti.

Non a caso proprio l’ultima foto del film, che si sviluppa durante i titoli di coda, mostra uno scollamento tra il momento ripreso dall’occhio e quello ripreso dalla fotocamera, proprio a testimoniare come la giovane Jessie abbia trovato un significato nella vita così come nella sua professione, perché quel significato racconta più di qualsiasi, banale, evento. Basti pensare anche alla famosa foto della Seconda guerra mondiale in cui i soldati americani issano la bandiera alla conquista di Iwo Jima, da sempre considerata una delle più significative foto di guerra ma allo stesso tempo frutto di una preparazione e costruzione artificiale, in cui il momento viene estetizzato e drammatizzato perché, pur essendo sicuramente avvenuto e magari fotografato anche nel momento reale, non sarebbe mai risultato così impattante e memorabile.

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Civil War da questo punto di vista potrebbe risultare respingente per chi si aspettava una feroce critica alla politica statunitense o semplicemente un film di fantascienza puro, ma è proprio lo scopo della sua riflessione a renderlo interessante e degno di nota. Nonostante questo il film rientra pienamente non solo nella poetica, ma anche nello stile del regista, mettendo in scena un’avventura on the road sicuramente avvincente e stimolante, anche solo per le immagini create.

Come in ogni film di Garland, è curioso notare le sovversioni al genere implicate nelle sue storie, che siano di aspettativa narrativa come l’ultima sezione di questo film, in cui si opera praticamente un’inversione di tutte quelle pellicole come Attacco al potere (dove di solito si seguono le gesta di chi salva o vorrebbe salvare il Presidente, e non il contrario) o anche di tipo sessuale, visto che tutti i suoi film mettono in scena protagoniste donne in generi da sempre maschiocentrici. In questo senso è molto interessante la relazione Lee-Jessie, che riprende e rielabora la classica narrativa del mentore che diventa quasi un padre surrogato per l’allievo, mostrandolo però in chiave madre-figlia.

Sono moltissimi quindi gli spunti che rendono questo Civil War un film da non perdere non solo per gli amanti del cinema del regista inglese, ma soprattutto per chi vuole vivere un’esperienza capace di accendere molte più connessioni mentali di quanto, spesso, film del genere possano fare.

Un ringraziamento speciale a Leone Film Group e 01 Distribution




Lorexio Articoli
Professare l'eclettismo in un mondo così selettivo risulta particolarmente difficile, ma tentar non nuoce. Qualsiasi medium "nerd" è passato tra le sue mani, e pur avendo delle preferenze, cerca di analizzare tutto quello che gli capita attorno. Non è detto che sia sempre così accurato però.

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