Zelda Tears of the Kingdom – Il viaggio meravigliato di un completista

ATTENZIONE: QUESTO ARTICOLO CONTIENE SPOILER

The Legend of Zelda: Tears of the Kingdom è certamente uno dei videogiochi più impressionanti degli ultimi anni. Sin dal suo annuncio è stato atteso spasmodicamente, e quando finalmente è approdato nelle case di noi videogiocatori ci ha trasportato in una nuova, mastodontica avventura (validissimo motivo per cancellare impegni, prendere delle ferie e dire addio ad una buona fetta della nostra vita sociale). No, non si tratta di esagerazioni: il produttore Eiji Aonuma, il game director Hidemaro Fujibayashi e il loro team si sono superati ancora una volta. Con questo sequel assai rischioso, riponendo piena fiducia negli appassionati, hanno dato vita al sandbox più incredibile di questa generazione; un prodotto dove il giocatore è il protagonista, giacché nelle sue mani si concentra un potere creativo immenso da mettere a frutto in una mappa che toglie il fiato.

Per citare i pensieri espressi dal collega JeruS nel corso dell’ultimo speciale di Nerdevilate dedicato in gran parte a questo Zelda, possiamo dire di “essere tornati a casa”. Nella storia del franchise, i sequel sono stati pochissimi e in questo caso la formula vincente di Breath of the Wild è stata migliorata così tanto da far sembrare quest’ultimo una “misera” beta. In veste di gamer ossessionato dal completismo, dopo aver concluso la campagna principale ed essermi perso per Hyrule e dintorni sono qui per raccontarvi la mia esperienza. Si tratta di un emozionante viaggio durato 105 ore, ma lungi dall’essere concluso, dal momento che – guida ufficiale alla mano – ho esplorato solo il 50% del mondo di gioco. Parliamone liberamente, dal momento che una recensione “standard” non renderebbe giustizia a ciò che ho vissuto.

La storia: le origini di Hyrule come non le avevamo mai viste, tra mito orientale e filosofia

zelda tears of the kingdom link

Ritengo necessario, innanzitutto, spendere due parole sul primo elemento che mi ha immediatamente colpito a pochi minuti dall’inizio della storia: uno stile narrativo assai più cinematografico e quasi dark (sebbene non ai livelli di Majora’s Mask o Twilight Princess). Il racconto parte proprio da dove si era interrotto il capitolo precedente: Zelda e Link si trovano nelle profondità del castello di Hyrule per scoprire quanto si estenda il miasma rilasciato dalla Calamità Ganon a seguito della sua distruzione. Lì rinvengono delle rovine appartenenti all’antica e misteriosa civiltà Zonau che prosperò nei cieli e discese da essi grazie a poteri divini. Questo popolo ha dato origine agli Hylia e al regno di Hyrule così come lo conosciamo, una grossa sorpresa per i fan.

Senza sviscerare il resto degli eventi, tra cui la Guerra dell’esilio che fa da cardine a tutta la campagna – avvenimento in cui la principessa Zelda ha un ruolo di prim’ordine – ritengo che Tears of the Kingdom si dimostri assai coraggioso nel raccontare la sua versione delle origini del regno, con lo Zonau Raul e la Hylia Sonia descritti all’alba dei tempi come i primi sovrani e avversari di Ganondorf. Tutto questo non viene menzionato né in Ocarina of Time né nei titoli a esso collegati. La sopracitata Guerra dell’esilio in cui Ganondorf viene sigillato sotto il castello di Hyrule, diventando così la fonte della futura Calamità Ganon, va a riscrivere del tutto la nascita del personaggio vista nei capitoli precedenti; allo stesso tempo, le vicende legate alla famiglia reale non coincidono con quelle raccontate in Skyward Sword. Da ciò si può dedurre che Breath of the Wild e Tears of the Kingdom non abbiano nulla a che fare con la vecchia cronologia; deduzione confermata dalle dichiarazioni di Aonuma e Fujibayashi, che collocano la coppia di giochi “in un futuro molto lontano, millenni dopo qualsiasi episodio della nota timeline“.

Viene a crollare quindi la nota teoria, nata dopo il 2017, secondo cui Breath of the Wild riunirebbe le tre linee temporali schematizzate ufficialmente da Nintendo nel libro Enciclopedia di Hyrule e dal sito giapponese di Nintendo. Per essere chiari, le cronologie citate si diramano dopo Ocarina of Time e sono la Sconfitta dell’Eroe del Tempo, la linea temporale di Link bambino e quella appartenente a Link adulto.

zelda tears of the kingdom link zelda

In sostanza, il Re dei demoni fa il suo trionfale ritorno ancora una volta e Link deve avventurarsi tra cielo, terra e sottosuolo per prepararsi all’ennesima battaglia in nome della pace. Nonostante non ci siano collegamenti formali con i capitoli sopraelencati, la storia semina qua e là easter egg e citazioni più o meno palesi all’eredità zeldiana, sia permettendo di trovare armi e armature speciali (a patto di possedere vecchie mappe segrete disseminate in ogni parte del regno), sia mostrandoci luoghi familiari, come un colossale Santuario del Tempo che troneggia tra i cieli. Non mancano ottimi colpi di scena che arricchiscono una trama più che mai coinvolgente.

A questo proposito, è impossibile non rimanere folgorati dinanzi al modo in cui Tears of the Kingdom racconta il destino di Zelda, ovvero tramite una serie di flashback da ricostruire passo dopo passo. Per farlo serve completare una missione secondaria che ci obbliga a visitare Hyrule in lungo e in largo e a indagare sui cosiddetti Geoglifi (iscrizioni che celano lacrime di drago capaci di rievocare ricordi). Al termine delle ricerche, ecco la stupefacente rivelazione: la principessa, dopo l’enigmatica sparizione che ha dato inizio alle vicende e che ha messo in allarme i sudditi, ha sempre vegliato su di noi tra i cieli di Hyrule, sotto forma di Drago eburneo. Una strizzata d’occhio alla mitologia giapponese legata ai draghi celesti.

zelda tears of the kingdom drago eburneo
Sì, questa è la principessa Zelda.

In un’avventura del genere, venire a conoscenza a poco a poco delle cause di questa trasformazione è qualcosa di davvero travolgente. Una svolta narrativa imprevedibile che rende meravigliosamente chiaro come gli sviluppatori abbiano voluto sfruttare appieno delle suggestioni provenienti dal loro folklore per arricchire la sceneggiatura. Basti pensare che le Gemme segrete che Link è chiamato a recuperare per salvare la summenzionata principessa non sono altro che un richiamo alle pietre preziose che – secondo il mito nipponico – custodiscono l’anima dei draghi, a loro volta manifestazioni degli elementi naturali (“go dai”, letteralmente “cinque grandi”) propri di varie filosofie orientali. I “go dai” del gioco sono: acqua, fuoco, vento, fulmine e spirito (una rivisitazione dei classici acqua, fuoco, aria, terra e vuoto).

Non solo: proprio quando credevo che gli eventi relativi a queste Gemme fossero chiusi, dopo 80 ore di traversate e con la testa piena di domande per colpa dei magheggi di Zelda, gli autori mi hanno elegantemente sbattuto in faccia la quest principale conclusiva, lunghissima e divisa in più parti. Tutto per rispondere a un altro quesito che, giocando e venendo distratto dalla miriade di esplorazioni compiute, non mi ero posto: che fine ha fatto la Spada Suprema che Link perde all’inizio della storia? Un twist che infittisce la già intricata e affascinante parabola dell’eroe e della principessa. Un racconto dove il passato influisce sul presente, intrecciandosi con esso in maniera perfetta e commovente come non mai. Ogni aspetto della lore viene approfondito con dovizia anche grazie alle side quest che rendono credibile l’inedita versione di Hyrule in cui si naviga. Non può mancare, in ultimo, uno spettacolare duello finale con Ganondorf, diviso tra sottosuolo e cielo, che ricorda molto da vicino i souls-like e che viene coronato da un ulteriore colpo di scena eccezionale (per farla semplice: capirete come mai il gioco s’intitola Tears of the Kingdom).

zelda tears of the kingdom ganondorf
Reimmaginare Ganondorf come un ronin è stato un vero colpo di genio.

Al termine di un tale tour de force fatto di retrospezioni, battaglie e scioccanti verità, quello che si presenta davanti agli occhi dei giocatori è un finale perfetto che, però, lascia addosso una curiosità quasi morbosa: ci si chiede se e come la storia proseguirà, alla luce – soprattutto – delle varie tematiche che questo capitolo ha tirato in ballo. Forte di un’art direction fuori scala che fonde usi e costumi giapponesi all’arte precolombiana, l’opera in questione parla di sacrificio, arroganza e tracotanza; offre una sua interpretazione inedita dei concetti di immortalità e di tempo (immancabili per il franchise). Radici narrative che rimandano dunque al taoismo e allo shintoismo, nonché all’eterno ritorno nietzschiano, alla figura mitica dell’Uroboro – presente non a caso nel logo del gioco – e alla filosofia insita in Dark Souls.

Chi non mastica certe dottrine, in ultimo, potrà quasi sicuramente notare come gli sceneggiatori abbiano voluto velatamente discutere anche di ecologia e ambientalismo, sulla falsariga della filmografia di Hayao Miyazaki per intenderci. Il regno di Hyrule è messo in ginocchio da quattro grandi catastrofi causate dall’influenza di Ganondorf e non è difficile intravedere in esse un rimando all’inquinamento degli oceani, al cambiamento climatico odierno e all’accidia umana.

Un mondo di gioco imponente, ma a misura di giocatore

zelda tears of the kingdom mongolfiera

È lapalissiano quanto Tears of the Kingdom rappresenti una delle punte massime di game design nel medium: di fronte a un lavoro così cesellato e che ha goduto di un processo di polishing durato più di un anno, c’è solo l’obbligo di togliersi il cappello. Per dare un’idea chiara dei precetti alla base del world building di questa nuova iterazione di Hyrule, è utile rifarsi alle parole del geniale Shigeru Miyamoto che, per creare la serie nel 1986, si ispirò alle sue esperienze esplorative. Da ragazzo, infatti, amava vagare per la zona collinare che circondava il suo quartiere natale a Kyoto. Lì si avventurava dentro fitte foreste costellate di laghi e caverne. Un momento per lui significativo fu scovare l’ingresso di una grotta in mezzo al verde, che decise di sondare sino in fondo facendosi luce con una lanterna. Tutto questo influenzò la creazione del mito di Zelda.

Sensazioni del genere sono state convogliate fedelmente nella formula di Breath of the Wild e più che mai espanse in questo suo successore. Detto esplicitamente: c’è una miriade di cose da fare e da scoprire (che siano missioni secondarie, tesori, luoghi, segreti o collezionabili). Ogni posto che si visita, piccolo o grande che sia, presenta qualcosa da fare. Come evidenziato in apertura, non basta una recensione per raccontare tutto: in sintesi si può affermare che, così come in Elden Ring, l’ambientazione è vasta e ricca allo stesso tempo. Non ci si ritrova mai a girare senza scopo o in placeholder vuoti. Persino dopo aver scritto questo articolo, sono sicuro che scoprirò tanto altro. Durante ogni mia sessione, portavo a termine qualcosa di più o meno importante; questo si traduce non solo in un’estrema gratificazione per l’utente, ma anche in un gameplay loop che non stanca mai. Questa avventura di Link rispetta il tempo che ognuno di noi riserva al proprio svago: che si giochi 30 minuti, 4 ore o dalla sera alla mattina come me, il risultato non cambia; una ricompensa è sempre dietro l’angolo e non si ha mai l’impressione di aver buttato via del tempo prezioso.

Ogni appassionato può girovagare come preferisce: in maniera metodica o andando dove lo porta il cuore. Spesso sono i dialoghi con gli NPC a guidare i nostri passi; ecco un esempio, parafrasato, di una classica conversazione interessante: “qui fa molto freddo, e i vestiti imbottiti costano caro, ma a est ci sono diverse grotte al cui interno fa invece molto caldo e dove potrai trovare dei minerali che noi compriamo a buon prezzo“. Queste poche righe rappresentano un diagramma perfetto di come si struttura una sfida raggiungibile da chiunque, da ogni direzione e in qualsiasi momento. Dopo ore di camminate o cavalcate, è impossibile poi non rimanere estasiati guardando l’alba o il tramonto in cima ad un monte per rilassarsi, accompagnati solo dal rumore del vento. Tocchi da maestro.

zelda tears of the kingdom maestro koga
Il Maestro Koga in tutto il suo splendore.

Il nome di Link deriva dalla parola inglese “link”, ovvero connessione, in quanto il personaggio è sempre stato inteso come un collegamento tra il giocatore ed esso. Quest’opera non fa eccezione e rispetta più che mai questo principio. Ciò si sostanzia in tutte le migliorie e le aggiunte presenti: tra i cambiamenti minori che più mi hanno colpito posso nominare il comodo ricettario per tenere finalmente traccia delle decine di pietanze da cucinare o l’aggiornamento riservato agli stallaggi, diventati punti di interesse assai più utili. Sostare e completare quest porta, difatti, a raccogliere punti fedeltà da scambiare per ricompense e personalizzazioni riservate al proprio cavallo.

Un notevole overhaul è stato dedicato anche alle location storiche come il Villaggio Calbarico o il Villaggio Finterra, e ciò si traduce in nuovi personaggi e sfide, così come dei decisi ritocchi estetici. Nonostante questo, la new entry nella mappa che mi ha lasciato sinceramente a bocca aperta – oltre alle zone cosparse di segreti e tesori come le isole celesti, i 58 pozzi e le 147 caverne – è stata il sottosuolo. Si tratta di un’area speculare a Hyrule (quindi estesa tanto quanto il cielo) mai menzionata o mostrata al pubblico durante la campagna promozionale (furbastri), riempita di rarità uniche, di pericoloso miasma e di avamposti Yiga (a cui, tra l’altro, è legata una subquest meravigliosa). Un territorio tremendamente buio, sconnesso e vagamente uncanny dove investigare diventa una vera e propria droga. In questo caso torna utilissimo un upgrade della nostra inseparabile tavoletta Sheika: il Cammino dell’eroe, nient’altro che una schermata che registra e visualizza il tracciato del percorso del proprio viaggio, fino ad un massimo di 256 ore di gioco (alla faccia di chi diceva che questo capitolo era alla stregua di uno scarno DLC).

Parlando invece della superficie, riporto un aneddoto simpatico che può restituire bene la dimensione della già menzionata Hyrule: il suo castello è notoriamente intricato e pieno di cunicoli sotterranei, passaggi segreti, porte da sbloccare, botole e così via. Inutile dire che, seguendo una “banale” missione secondaria, mi sono ritrovato – con sgomento misto a entusiasmo – a esplorare le grotte al di sotto di esso per più di un’ora e mi sono perso. A proposito di dungeon, ritornano ovviamente i sacrari e questa volta sfruttano intelligentemente e in maniera decisamente più divertente i chiacchieratissimi poteri di Link.

I poteri Zonau, ovvero come trasformare Link in un ingegnere aerospaziale

zelda tears of the kingdom veicolo volante

I 10 minuti di gameplay pubblicati a fine marzo, dedicati proprio ai suddetti power-up, avevano infiammato l’hype di mezzo mondo. Switch alla mano posso confermare che quell’euforia era ampiamente giustificata: indubbiamente Ultramano e Schematrix sono le due skill più spassose da usare, soprattutto quando con la combo giusta di oggetti si riescono ad assemblare arnesi o espedienti per superare un ostacolo o avere la meglio in certe battaglie. La prima abilità, intuitiva e stimolante, permette subito di sperimentare costruendo ciò che più ci aggrada con i materiali e i congegni Zonau a disposizione (alianti, idranti, ruote, laser, ventole…); la seconda è una pratica e veloce cronologia dove memorizzare i nostri congegni per fabbricarne copie istantanee con gli stessi componenti (vantaggiosissima quindi per ricreare marchingegni complicati). Non dimentichiamo poi Compositor che permette di ricombinare le 150 armi disponibili e gli altrettanti drop, ora divenuti tutti quasi indispensabili. Ormai rimanere a corto di risorse per difendersi è un lontano ricordo.

Come era lecito aspettarsi, i fan – meno di una settimana dopo il day one – non si sono limitati a realizzare macchinari convenzionali come aeroplani o mongolfiere, bensì si sono dimostrati validissimi geometri e ingegneri condividendo sui social diavolerie e macchine di morte all’apparenza inverosimili come carri armati, elicotteri, riproduzioni del Metal Gear REX, bombardieri anti-Ganondorf e moltissimi altri ritrovati scientifici che si credevano impossibili da vedere in uno Zelda. Fedeli più che mai alla formula sandbox del gioco, hanno poi fatto dono alla community di un hoverboard, una vettura irrinunciabile per ogni avventuriero, assemblabile con facilità da chiunque e perfetta per volare in lungo e in largo senza fatica. Eccola:




Cos’altro dire in merito a questo sconfinato scatolone di giocattoli? È un’iterazione della saga in cui mi sono sentito permeato dalle stesse sensazioni provate nel 2017 con Breath of the Wild: pura gioia nel fare qualsiasi cosa mentre mi chiedevo incessantemente “cosa troverò ora?“. Come il suo predecessore, Tears of the Kingdom è una vera e propria ode al significato più primordiale e più genuino insito nel medium videoludico; un’ode al giocatore: un modo di pensare il videogioco non come un prodotto creato per mettere dei paletti alle scelte dell’utente, ma un’opera di ingegno che spiazza per le possibilità immaginifiche offerte (per approfondire questo aspetto, consiglio due video-saggi di Marshall McGee e Scruffy).

The Legend of Zelda: Tears of the Kingdom non è solo uno dei migliori capitoli di Zelda nella storia, ma anche e soprattutto una meravigliosa epopea all’insegna della scoperta continua, nata dalle mani di chi ai videogiochi ha dedicato la propria vita.




Nefasto Articoli
Videogiocatore incallito, cinefilo dalla nascita, attore di teatro e batterista da diversi anni. Adoro approfondire qualsiasi cosa abbia a che fare con l'arte e l'audiovisivo: è difficile fermarmi quando inizio a scrivere o a parlare focosamente di ciò che amo.

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