The Witch

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Fede e blasfemia sono sempre state terreno fertile per creare storie del terrore dai toni forti, pellicole utili a rappresentare l’eterna dicotomia tra bene e male, necessariamente intrecciate nella vita di ogni giorno e la stregoneria è un suo sottofilone abbastanza sfruttato, che in tempi passati ha prodotto colliri cinematografici come Suspiria o Inferno, e nel recente periodo alcuni graditi ma discreti ritorni (La Terza madre) e qualche deliziosa novità (Le streghe di Salem). Se alcune sequenze di The Witch sono assolutamente originali, altre (in particolar modo il bel finale) per somiglianza tematica paiono sorelle maggiori di recenti successi come L’ultimo esorcismo e il terzo capitolo della saga di Paranormal Activity, entrambe pellicole strettamente connesse con il film di Eggers per argomenti affrontati. Robert Eggers, regista alla sua opera prima dopo una ricca carriera nelle retrovie tecniche del teatro newyorchese, dove si è barcamenato tra costumi e scenografie, cavalca l’ondata di horror autoriali che in questo periodo fioriscono oltreoceano, mettendo in atto una ristrutturazione del filone storico, abbastanza desueto per un pubblico avido di azione e brividi a buon mercato, e costringendoci a sorvolare alcune lungaggini che inficiano il ritmo del film, altrove più adattato alla contemporaneità.

Ci troviamo nei primi anni del Seicento, una famiglia coloniale del New England è costretta all’esilio dalla propria comunità puritana per essersi progressivamente allontanata dalla fede, avendola vissuta in maniera eccessivamente zelante. Stabilitisi non molto lontani dalla colonia, con la costruzione di una propria fattoria, la famiglia tenta di riprendersi dal trauma dell’allontanamento sociale ma alcuni problemi iniziando ad inficiare il loro processo di insediamento: il primogenito scompare dinanzi gli occhi increduli della sorella Thomasin, e subito in casa inizia a respirarsi un’atmosfera di distanza tra i vari membri, sospetti e accuse ricadono su ognuno dei figli, in un crescendo di ipocrisia, superstizione e orrore. Ed è in questa spirale che si anniderà il male, pronto a distruggere il legame familiare che lentamente si stava rinsaldando.

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La famiglia come luogo di rifugio viene destrutturata nella sua solita concezione e si modifica nel suo estremo opposto, divenendo il luogo in cui prolifica un male impossibile da debellare, almeno all’apparenza, lasciando ogni membro di essa in balia di una perenne inquietudine causata dall’impossibilità di riporre ancora fiducia negli altri familiari. Il contesto storico in cui viene calata la vicenda, abbastanza insolito per un prodotto di genere horror realizzato nella contemporaneità, permette ad Eggers di lasciar sviluppare adeguatamente un cocktail di personaggi ben calibrato, a partire dall’autoritario pater familias, continuando nella rigida piramide gerarchica con la severa e ultra-credente madre, il figlio minore seguente le orme paterne e la sorella, prematura nutrice e balia dei suoi piccoli fratelli, ognuno dipendente a catena dall’altro e costretto nella morsa della religiosità, ferrei assertori di un fondamentalismo impari nella propria comunità e per questo dapprima screditati ed in seguito, con assemblea pubblica, esiliati dalla loro terra natia.

L’uomo, visto come animale sociale sin dai tempi greci, viene costretto ad allontanarsi da quella stessa società che lo ha inglobato nei suoi arcaici meccanismi di imposizione intellettuale, rinascere a nuova vita, o almeno tentare di realizzare questa volontà comune con il lavoro agricolo e con la costruzione di una esistenza votata direttamente alla religiosità. La superstizione prende il sopravvento sul normale modus pensandi, divenendo il fulcro attorno al quale ogni evento viene analizzato, lasciando la madre in un perenne stato paranoico, notevolmente peggiorato con l’inizio delle manifestazioni. Il nefasto è diretta conseguenza di una punizione divina, il propizio un fortunato accondiscendere dell’ultraterreno: questa è la norma cognitiva vigente nella neonata micro-società, e la mitigazione del fondamentalismo materno costretta dai precedenti concittadini è qui assente, portando alle estreme conseguenze il serpeggiare dei sospetti, miccia pronta ad innescarsi in brevissimo tempo.

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Al primo accenno di orrore l’affetto implode e i personaggi si accusano vicendevolmente, lasciando lo spettatore alla ricerca di un possibile punto fermo, in una trama che spesso lascia ampio spazio al racconto per poi riprendersi e sferzare nel ritmo. Eggers gira possibilmente meglio di come scrive, semplificazione per sottolineare la frequente debolezza di una struttura narrativa vacillante in alcune sequenze, aiutata da un comparto tecnico certosino e da una cura simile nella ricerca dei dialoghi, tratti da reali resoconti scritti dell’epoca. La regia e la fotografia – soprattutto quella presente nelle scene notturne – valorizzano così uno script discreto ed un ritmo narrativo altalenante, dove a brevi sprazzi di orrore seguono lunghi silenzi, alternati a ricercate inquadrature (emblematica per cura nella realizzazione è la scena dell’esilio, dove la macchina a mano si allontana in soggettiva, sul carro in cui sono posizionati i protagonisti, uscendo dalla cittadina, sotto gli occhi minacciosi degli abitanti). The Witch è cinema di genere di altri tempi, Eggers ne è consapevole e lo stile che adotta è figlio d’altri tempi, coerentemente alla sua voglia di documentare un orrore realmente accaduto nel passato e con frequenza malamente trattato nella cinematografia. Il suo secondo orrore sarà quello giusto?




Fulcho Articoli
Cinefilia o cinofilia? Non ancora riesco a distinguere. So solo che amo il cinema, con tutto me stesso e non posso vivere senza. Toglietemi tutto, ma non la mia pellicola.

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