Amsterdam – Una recensione ideologica

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Voto:

David O. Russell, regista americano famoso per i suoi film Oscar-bait come Il lato positivo e American Hustle – ma da qualche anno lasciato un po’ da parte – cerca di tornare alla ribalta in questo 2022 con Amsterdam, un film ricolmo di star di Hollywood (neanche fossimo negli anni ’30) e che, negli intenti, dovrebbe essere una commedia grottesca mista a un giallo in stile Knives Out. Sfortunatamente il regista sbaglia completamente i toni, rendendo il tutto troppo serioso e retorico perché le gag e le situazioni surreali funzionino, ma allo stesso tempo troppo fumettoso e sopra le righe per anche solo cercare di parlare di qualcosa di più profondo.

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Ora, il voto della recensione è sicuramente più basso di quanto il film a livello “oggettivo” possa meritarsi, in quanto per costruzione narrativa, regia e performance ricadrebbe tranquillamente solo nella mediocrità. Ciò che però ha fatto inasprire così tanto il mio giudizio è una questione – come dichiarato nel titolo – puramente ideologica, che mi porta a considerare la pellicola come ipocrita, paracula e incredibilmente moralista.

Partendo dalla base, Amsterdam inizia con il disclaimer di film basato su un fatto storico vero, e segue le vicende del medico Burt Berendsen (Christian Bale), reduce della prima guerra mondiale che, tornato negli USA, ha aperto uno studio specializzato proprio nella cura dei veterani di guerra. Nel 1933 insieme al suo fidato compagno Harold Woodman (John David Washington), conosciuto durante il servizio militare, Berendsen viene contattato da Elizabeth Meekins (Taylor Swift) per effettuare in fretta l’autopsia su suo padre, il generale Meekins (già incontrato dai due sempre durante la grande guerra), poiché sospetta qualcosa sulla sua morte.

Da questo piccolo evento i due si ritroveranno immersi in una cospirazione a livello mondiale, che li porterà ad indagare sia nel loro passato – nel quale sono cruciali la città Amsterdam e Valerie Voze (Margot Robbie), che li aiuterà anche nelle indagini – sia nel cuore profondo dell’America alle porte di quella che sarà la seconda guerra mondiale. Il loro viaggio sarà costellato da star del calibro di Rami Malek, Anya Taylor-Joy, Mike Myers, Zoe Saldana e persino Robert De Niro, i quali occupando anche il più marginale dei ruoli, però, finiscono per oscurare completamente con la loro identità quella dei personaggi che dovrebbero interpretare.

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Vorrei soffermarmi un attimo proprio sull’interpretazione degli attori, e non di certo per la loro bravura in sé, ma per come sono stati scelti e diretti dal regista. Purtroppo in Amsterdam l’unico veramente in parte e il cui personaggio risulta credibile al 100% è Christian Bale, che riesce a districarsi abilmente tra toni seri e ironici, riuscendo a trasmettere un minimo quel senso di grottesco che il film doveva avere alla base. Solo lui però riesce a dare un apporto utile a questo stile, mentre tutti gli altri sembrano quasi fuori parte: Margot Robbie ad esempio non esce mai dall’interpretazione drammatica, anche nei momenti più “divertenti”, e John David Washington è troppo monoespressivo.

Bale inoltre rimane l’unico credibile anche secondo un’altra prospettiva, ovvero quella dei salti temporali della narrazione: il suo Burt è l’unico personaggio che visivamente presenta dei connotati diversi e invecchiati rispetto alla sua controparte del 1918. Invece per gli altri due protagonisti 15 anni sembrano passati come niente fosse, dato che non mostrano neanche una ruga fuori posto. Quest’eccessiva rigidità dell’estetica, coadiuvata anche da una fotografia di Emmanuel Lubezki – mio dio, cosa sei finito a fare – veramente sottotono, che si limita ad accentuare i protagonisti in un contesto d’epoca rappresentato come le cartoline dei parchi a tema, si riflette anche in una rigidità della narrazione che ce la mette tutta per esplodere, ma non arriva mai ad un climax, che sia di tensione, di empatia, di sorpresa. Il film vorrebbe appassionare lo spettatore con le sue funamboliche riprese e interpretazioni, ma finisce per diventare un pastrocchio in cui solo l’ostentazione del budget (80 milioni di dollari spesi probabilmente quasi tutti per il cast e le location) diventa l’unico intrattenimento possibile.

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Se Amsterdam avesse mantenuto per tutta la sua durata – delle pesantissime 2 ore ed un quarto – un mood molto più fumettoso e “ucronico”, raccontando un’avventura senza pretese e volutamente sopra le righe, probabilmente ne avrebbe giovato anche la realizzazione. Un film come questo infatti è molto più vicino (a livello narrativo) a opere come Sky Captain and the World of Tomorrow rispetto al crudo realismo degli eventi storici che, seppur romanzati, rimangono credibili come nel Munich di Spielberg. Il film invece, soprattutto nella parte finale, insiste sulla sua natura “reale” – tanto da sovrapporre anche un discorso del vero generale Dillenbeck a quello interpretato da Robert De Niro – crollando inevitabilmente sotto il peso insostenibile della sua narrazione troppo “d’intrattenimento”.

Purtroppo non si possono prendere sul serio verità storiche importanti trattate come si farebbe con una storia da fumetto, dove i cattivi sono alla stregua dei mad doctor della fantascienza anni ’20/’30 e la complessità del contesto storico è ridotta ad una banale lotta tra il bene e il male. Un film del genere, trasposto ad esempio in un mondo steampunk e con una differente direzione generale, avrebbe tranquillamente funzionato come divertente intrattenimento, senza la pretesa di attenersi a fatti reali.

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Proprio in questo la mia recensione di Amsterdam diventa ideologica, nel momento in cui gli Stati Uniti nel film vengono fatti passare come l’unico Paese che in quegli anni è rimasto come baluardo della libertà dei popoli, soggiogati nel resto del mondo da nazisti e fascisti (che comunque gli facevano comodo e con i quali si sarebbero alleati tranquillamente contro “la minaccia rossa”). Soprattutto quando l’uomo bianco, anziano, conservatore, dichiaratamente repubblicano e figlio di banchieri viene assunto come salvatore di questi valori di libertà e unico moralmente puro, io non ce la posso più fare.

Non è possibile far passare inosservati dettagli come i protagonisti che, senza ironia, dicono che sarà impossibile che l’America possa mai diventare una corpocrazia basata sui lobbisti multimilionari, perché lì vige il sogno americano e sia mai provare a sfiorarlo. Un film del genere è solo il riflesso di quella che è diventata ormai l’industria dei blockbuster, che non riescono mai a rinnovarsi e che, anzi, sembrano tornati ad una logica produttiva davvero degli anni ’30 e ’40, dove le star e i valori americani da difendere sono le uniche cose che contano. In un film del genere io, anche sforzandomi, davvero non riesco a salvare nulla.




Lorexio Articoli
Professare l'eclettismo in un mondo così selettivo risulta particolarmente difficile, ma tentar non nuoce. Qualsiasi medium "nerd" è passato tra le sue mani, e pur avendo delle preferenze, cerca di analizzare tutto quello che gli capita attorno. Non è detto che sia sempre così accurato però.

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