Il male non esiste (Aku wa sonzai shinai)

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Dopo l’assoluto e meritatissimo trionfo di Drive My Car, il giovane e talentuoso Ryūsuke Hamaguchi è ritornato in Italia in occasione dell’80ª Mostra del Cinema di Venezia per presentare il suo ultimo film, una delle sorprese più gradite del Concorso, ovvero Il male non esiste (Aku wa sonzai shinai). La sceneggiatura è firmata da Hamaguchi stesso che, questa volta, si circonda di pochi collaboratori per una produzione semplice e a basso budget; una caratteristica che ben si sposa con il lungometraggio, dotato di atmosfere intime e rarefatte.

La trama, allo stesso modo, è riassumibile in poche righe: il tuttofare Takumi (Hitoshi Omika) e la figlia Hana (Ryo Nishikawa) vivono in un piccolo villaggio montano di nome Harasawa che conta circa seimila anime. Come altre generazioni prima di loro, i due conducono una routine modesta assecondando i cicli e l’ordine della natura. A disturbare la loro tranquillità giunge la Playmode, un’agenzia di spettacolo nonché ricca corporazione di Tokyo che decide di proporre a tutti gli abitanti del paesino uno strambo progetto: un glamping, una strana fusione tra glamour e campeggio per attirare turisti. Quest’ultimo non è altro che un piano subdolo per sfruttare i sussidi economici garantiti dallo Stato dopo la pandemia; un modo come un altro che lo spietato capitalismo ha per cannibalizzare persino la natura incontaminata.

Una riunione tra gli onesti abitanti di Harasawa e gli sprovveduti funzionari Takahashi (Ryuji Kosaka) e Mayuzumi (Ayaka Shibutani) genera subito del forte malcontento, in quanto il sopracitato glamping avrà sicuramente gravi ripercussioni ecologiche e sociali sulla vita, la fauna e la flora del povero paese.

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Takumi e Hana.

Harasawa è infatti un luogo assai tranquillo, quasi immobile nella sua serenità, e le molteplici e goffe contraddizioni presentate dalla coppia di impiegati non fanno altro che rendere palese la noncuranza di una facoltosa corporazione – e del suo presidente Horiguchi – nei confronti della natura. L’obiettivo è cavalcare un business nascente e sfruttare ciò che certe mete bucoliche hanno da offrire, senza badare alle conseguenze. In particolare, attraverso battute molto taglienti e critiche verso certe logiche aziendali, Takumi, il sindaco Suruga e il resto della comunità si scagliano contro l’elemento più pericoloso previsto dal progetto di Playmode: una fossa settica.

C’è il rischio concreto che l’acqua potabile fornita dai pozzi venga irrimediabilmente inquinata, senza contare l’alto numero di falò abusivi che i nuovi turisti potrebbero appiccare. Tra probabilità di incendi e contaminazione del territorio, è chiaro che Tokyo non ha il benché minimo controllo sulla situazione. Ciononostante, lo slogan della Playmode è “rivitalizzare la zona”, uno specchietto per le allodole che presenta più svantaggi che altro. Harasawa tutta vorrebbe accordarsi pacificamente per la spartizione della terra (similmente a quanto si vede in Bastarden), Takumi prega per una soluzione equilibrata, ma l’agenzia risponde solo con false promesse e patetici palliativi (così da non dover ripensare l’intero progetto da zero, cosa che manderebbe in fumo le sue finanze).

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Mayuzumi (a sinistra) e Takahashi discutono con Takumi.

Immersi in queste premesse narrative e in atmosfere spiccatamente bucoliche, si muovono i personaggi che sono uno dei fiori all’occhiello dell’opera: Hamaguchi confeziona nuovamente una storia corale, vicina al suo Happy Hour del 2015. Takumi è un uomo silenzioso e a tratti burbero che conosce Harasawa come le sue tasche, Hana invece è dolce e curiosa di tutto ciò che la circonda. Durante le sue camminate solitarie, dimostra un grande amore per gli animali e sarà proprio questo legame a segnare un punto di svolta per le vicende, eventi che lasciano trasparire una decisa repulsione per i cambiamenti negativi che avvelenano l’ordine naturale delle cose.

Takahashi e Mayuzumi, cittadini di una Tokyo rumorosa e spoglia, non sono abituati alla vita di campagna. Hanno abitudini diverse, sottolineate da brevi siparietti comici dove soprattutto il primo mette in mostra la sua sbadataggine. Insoddisfatti delle loro esistenze, vorrebbero abbandonare le routine da impiegati e stabilire un contatto più sincero con la natura per sentirsi di nuovo bene. Piccoli tormenti che ci vengono raccontati attraverso bellissimi dialoghi in auto, proprio come accade nell’eccellente Drive My Car; non sorprende quindi che questo film abbia vinto il Leone d’Argento – Gran Premio della Giuria a Venezia, peccato invece che il Premio per la migliore sceneggiatura gli sia stato soffiato inspiegabilmente da El Conde di Larraín.

Proprio grazie alle interazioni tra Takumi e i due funzionari, il regista articola una riflessione personale sulla pandemia che ci siamo lasciati alle spalle: non è sempre necessario fuggire dalla solitudine, riscoprire la quiete può salvare la vita. Esperienze come i lockdown degli ultimi anni ci hanno insegnato ad apprezzare la semplicità dei silenzi e delle piccole cose. Tornare al caos post-capitalista è stato un vero shock.

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Riprendendo a tratti il “cinema dei gesti” di Hirokazu Kore’eda – che io ho personalmente ribattezzato “cinema del frammento” – i personaggi vengono dipinti attraverso le loro azioni e i loro gesti leggeri, appunto; questi ultimi, guidano poi una narrazione che si scioglie piano piano. Quello di Hamaguchi è uno stile lento e minimale – ma mai superficiale – che punta alla contemplazione della messa in scena, quasi come se ci si trovasse davanti a un documentario. Tra gli abitanti di Harasawa – una comune serena e alla pari – vige una cooperazione inscalfibile e assai poetica, persino durante quadretti “di poco conto” come la raccolta di provviste e acqua potabile.

La regia non è mai invadente, anzi, sfrutta le centinaia di alberi tra le montagne come quinte naturali per osservare i protagonisti nei loro metodici servizi di routine; questi vengono mostrati nella loro interezza, senza scomporli attraverso il montaggio. Le inquadrature sono quindi fisse e lunghe, dei brevi piani sequenza, caratterizzati talvolta da pochi movimenti calcolati (come ad esempio delle graduali panoramiche).

Sono poi le musiche minimal di Eiko Ishibashi – già autrice della colonna sonora di Drive My Car – ad arricchire le atmosfere pure de Il male non esiste. Tra archi sognanti, sintetizzatori eterei e punte di progressive jazz, la natura incontaminata di Harasawa appare come un mondo ameno fatto di bianchissima neve. Quando anche la musica tace, a cullare lo spettatore rimangono solo gli sporadici dialoghi e i suoni d’ambiente, nel pieno rispetto della pace della campagna.

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I 106 minuti di Aku wa sonzai shinai volano verso un finale inaspettato e criptico, in cui le montagne vengono avvolte dalla notte scura e da un blu freddo e distaccato. Una chiusura ad anello dove la macchina da presa scruta le cime degli alberi, prima baciati del sole, ora dalla luna. Una conclusione che stordisce, aperta a interpretazioni libere. Forse Ryūsuke Hamaguchi vuole dirci che “il male non esiste” ad Harasawa, ma viene tenuto cautamente all’esterno, nella metropoli. O forse vorrebbe far passare l’idea che noi non siamo cattivi per natura, bensì lo diventiamo per difenderci dalle minacce che scuotono le nostre esistenze e il nostro ecosistema: attacchiamo solo se feriti, come degli innocui animali.

Tra le varie riflessioni possibili, una cosa è certa: questo lungometraggio sa parlare davvero a tutti, superando le barriere culturali e geografiche. Nella sua umiltà, invita a godere delle piccole cose che la vita ci offre, perché da un momento all’altro potrebbero non esserci più.

Prima di girare questo film non ero chissà quanto connesso con la natura, siccome sono cresciuto in città e non sono mai stato un amante delle passeggiate all’aria aperta. A vent’anni ho compreso per la prima volta la bellezza del guardare gli alberi dal basso, proprio come la prima inquadratura de Il male non esiste e ho avvertito il potere curativo della natura. Potrei ammirarla ogni giorno senza stancarmi mai. Non avevo idea di come incorporare questi miei sentimenti in un film, ma oggi sono lieto di esserci riuscito – Ryūsuke Hamaguchi




Nefasto Articoli
Videogiocatore incallito, cinefilo dalla nascita, attore di teatro e batterista da diversi anni. Adoro approfondire qualsiasi cosa abbia a che fare con l'arte e l'audiovisivo: è difficile fermarmi quando inizio a scrivere o a parlare focosamente di ciò che amo.

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