Drive My Car

drive my car film recensione

Voto:

La Saab 900 Turbo macina le strade del Giappone. Vaga, un po’ impigrita un po’ in allerta, adocchiando file su file di grattacieli che sembrano tutti uguali. Yusuke Kafuku (Hidetoshi Nishijima) non vuole tornare a casa, e allora si lascia viziare da una sottile idea di equilibrio emotivo, nasconde la realtà sotto il tappeto. Sarà l’errore che rimpiangerà per tutta la vita.

Drive My Car Yusuke Kafuku

Drive My Car, film giapponese presentato alla 74ª edizione del Festival di Cannes e diretto da Ryūsuke Hamaguchi, si ispira al racconto omonimo di Haruki Murakami. Yusuke Kafuku è un drammaturgo e attore teatrale e vive un rapporto saldo con la moglie, che lavora nella televisione. Questo, almeno, è ciò che sembra. In realtà, la moglie lo tradisce ripetutamente e Yusuke ne è a conoscenza. Anzi, più volte la sorprende in dolce compagnia altrui; ma il confronto non arriva mai. Per preservare un equilibrio idilliaco, il protagonista soffoca la gelosia, soffoca i suoi reali sentimenti e tira avanti. Questo suo vedere e mai agire ha una ripercussione anche sul piano psicosomatico: gli viene infatti diagnosticato un glaucoma, una malattia che, gradualmente, gli causerà la perdita della vista. Come se ciò che avesse visto e represso nei meandri della coscienza, venisse comunque a riscuotere un prezzo da pagare.

Poi cambia tutto. La compagna muore e la risoluzione delle loro incomprensioni diventa impossibile. Tutto ciò che rimane a Yusuke dell’amata è un nastro con registrate le battute di “Zio Vanja”, il testo di Cechov che è stato chiamato a mettere in scena a Hiroshima, in quella mistura teatrale multilingua per la quale le sue produzioni sono diventate famose. Il nastro gli occorre per imparare le battute durante i viaggi in auto, ma, di fatto, è come se si instaurasse un dialogo con l’aldilà, come se, attraverso la cassetta, potesse ancora parlare con la moglie. Ecco che la Saab diventa il simulacro del lutto, un santuario all’idea della moglie sparita che viene cristallizzata e della quale Yusuke è immensamente geloso. Peccato che, il lutto che si trascina come la casetta di una lumaca, sia distorto e irreale.

Yusuke infatti vive ancora in quella falsa armonia, in quell’idea che lui e solo lui aveva della relazione con la moglie, un’idea dove negare l’evidenza e sopprimere hanno l’altissimo scopo di salvare un’apparente perfezione. Ecco perché non riesce più a recitare, ecco perché deve abbandonare il ruolo di Zio Vanja per passare al lavoro dietro le quinte. Quei momenti di finzione sono gli unici di verità, e il personaggio di Zio Vanja sembra ripercorrere le cose che non ha mai fatto, ma che avrebbe dovuto fare. E forse, così, avrebbe salvato anche la moglie.

Drive My Car La strana coppia

Questo leitmotiv teatrale che lega a doppio filo l’intreccio principale al testo di Cechov ci guida attraverso la storia e permette al film qualche volo pindarico di scrittura. Durante la narrazione, quello che Yusuke fa sul palco ha sempre un rimando alla sua situazione: non a caso, a inizio film, lo troviamo nei panni di uno dei protagonisti di “Aspettando Godot” di Beckett. Anche lui è in attesa di qualcosa che non verrà mai e obbligato all’immobilità.

Trasferitosi a Hiroshima per lavorare al testo di Cechov, Yusuke incontra Misaki Watari, l’autista che il festival ha assunto per lui. Non c’è bisogno di dire che consegnare la macchina a lui tanto cara a qualcun altro lo rende più che riluttante. I due svilupperanno un rapporto che porterà a galla il mai detto di entrambi i fronti, aiutandoli a crescere. Yusuke smetterà di essere un passivo passeggero e prenderà il posto che gli spetta sul sedile accanto al guidatore, ma senza tornare al volante dell’illusione.

Una delle scene migliori del film

Drive My Car, con le sue 3 ore (sic!) è un film tutto da esplorare, partendo dalla meravigliosa messa in scena paesaggistica, fino alla costruzione dei personaggi che non scadono mai nel banale. Vale la pena di vederlo anche solo per gustarvi quello che è, a tutti gli effetti, un monologo completamente muto che va a chiudere la narrazione. Un film che si prende i suoi tempi, i suoi respiri, con i titoli di testa che arrivano dopo circa mezz’ora dall’inizio, dopo un prologo che sistema tutti i personaggi al proprio posto.

Non confondiamo però il respiro con la noia, perché di momenti di fiacca, non ce ne sono. Se l’azione diventa un po’ statica, subito la scrittura interviene a rimpinguare l’interesse dello spettatore. Insomma, 3 ore sì, ma in cui si resta incollati allo schermo, dentro la storia e vicino ai personaggi. Un film che va visto e, forse, va rivisto per cogliere sfumature e particolari sfuggiti al primo giro, e per subire una seconda volta il fascino della dolce freddezza con cui vengono messe in scena le immagini.

Piccola nota personale, in chiusura: al momento credo sia il film uscito da Cannes che mi è piaciuto di più.




Nasce a Firenze nel '91, è autore di fumetti e docente di storytelling all'accademia di cinema di Firenze.

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