Metal Lords, un’apologia del metal all’acqua di rose

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Tra i quindici e i diciotto anni chi non ha attraversato quella fase trasgressiva da metalhead duro, puro e capellone? Io non faccio eccezione ed è proprio per questo motivo che Metal Lords, diretto da Peter Sollett (Nick & Norah – Tutto accadde in una notte) e sceneggiato da D.B. Weiss – showrunner di Game of Thrones – ha toccato in me le corde giuste, riportandomi ad un’adolescenza fatta di borchie, anelli ed headbanging compulsivo.

Il lungometraggio targato Netflix fa capolino tra le ultime uscite della piattaforma streaming e, personalmente, ha garantito al sottoscritto una piacevole serata, risparmiandomi il noioso atto di scrutare all’infinito il catalogo di film alla ricerca di qualche ora di intrattenimento. Scopriamo dunque cos’ha da offrire questa commedia teen votata all’heavy metal.

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I due protagonisti: Kevin (a sinistra) e Hunter.

La trama, come è normale che sia in questi casi, è molto basilare: Kevin Schlieb (Jaeden Martell) e Hunter Sylvester (Adrian Greensmith, al suo esordio nel cinema) sono due liceali caratterialmente agli antipodi. Il primo – timido e insicuro – è un neofita in fatto di metal, tant’è vero che si limita a suonare il rullante nella banda della scuola; il secondo – un chitarrista trasgressivo e spaccone – sogna di condurre una vita straordinaria al fianco degli dèi del metallo e decide quindi di fondare con il suo unico amico una band heavy metal: gli Scopatori Cranici (Skullfuckers in originale).

Purtroppo, l’ambiente scolastico non è un terreno fertile per i due ragazzi: i loro compagni preferiscono infatti la musica decisamente più mainstream suonata da un’altra band, nel cui repertorio figurano canzoni degli Imagine Dragons e di Ed Sheeran. Come se non bastasse, il temperamento aggressivo e testardo di Hunter non fa altro che cacciare quest’ultimo nei guai con gli immancabili bulletti di turno, affossando la reputazione del duo. Per redimersi e tentare di guadagnare un briciolo di fama, i nostri Scopatori Cranici decidono di iscriversi ad una battaglia tra band finanziata dal loro liceo, ma c’è un problema: manca un bassista. Sarà l’arrivo in scena di Emily Spector (Isis Hainsworth), una violoncellista schiva e sopra le righe, a sconvolgere lo status quo.

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Isis Hainsworth nei panni della dolcissima Emily.

Metal Lords è stato e viene tuttora demolito su Letterboxd, ma sinceramente fatico a comprendere le ragioni del pubblico più aspro. Personalmente, credo sia un coming of age molto carino e, per di più, pieno di influenze dal fantastico School of Rock di Richard Linklater. I suoi punti di forza risiedono principalmente nei tre giovani protagonisti: il cast è davvero azzeccato e il trio ben delineato, sebbene aderisca abbastanza fedelmente alle caratterizzazioni classiche dei teen movie. Come evidenziato, abbiamo il timido, lo spavaldo e il terzo incomodo dalle mille sorprese. Nonostante ciò, la sceneggiatura riesce a donare a tutti delle sfumature non banali che li allontanano dall’essere delle sagome di cartone.

Proprio il personaggio di Isis Hainsworth – la cui performance ho trovato veramente adorabile – porta sul piatto tematiche interessanti, essendo una ragazza affetta da disturbi psicologici che le impediscono di controllare la rabbia e la costringono a fare uso di farmaci che lei chiama “pillole della felicità”. Hunter, dal canto suo, è un metallaro pretenzioso e chiuso di mente che mostra agli spettatori il lato più negativo di certe tendenze musicali, dando adito a del costante gatekeeping e persino a sprazzi di misoginia.

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Quanto alla visione sul mondo della musica proposta dal film, questa fortunatamente non scade mai nel discorso “da poser”, tutt’altro. Affronta l’universo metal evitando di essere troppo superficiale, infatti non mancano citazioni a varie sottoculture dove trovano spazio anche i Tool e i Meshuggah (questi ultimi, credo, mai menzionati in un lungometraggio di questo stampo). Irrinunciabile a tal proposito la colonna sonora di Ramin Djawadi (ReminiscenceEternals, Westworld) che brilla soprattutto per i brani su licenza: Whiplash e For Whom The Bell Tolls dei Metallica, Painkiller dei Judas Priest, The Trooper degli Iron Maiden, War Pigs dei Black Sabbath e I’m Broken dei Pantera sono solo alcune delle canzoni – adatte ad ogni situazione – con cui la pellicola delizia l’udito. Se siete affini a tutto ciò, vi esalterete come dei bambini (complici anche degli inaspettati quanto ottimi cameo).

Pur offrendo questo accorato tributo, la creazione di Sollett non articola un’analisi chissà quanto profonda o complessa. Non credo sia neanche il suo obiettivo, essendo comunque un’opera che punta principalmente ad un target giovanile. Per come la vedo io, si tratta semplicemente di un lungometraggio pieno di positiva nostalgia che potrebbe riuscire a catturare anche qualche cuore adulto (leggasi boomer). I giovani, al contempo, possono sia sentirsi rappresentati, sia avvicinarsi a tendenze musicali mai esplorate. Sfortunatamente, ho già avvistato online lo zoccolo duro dei metallari “trve kvlt” che, repellendo la semplicità del povero Metal Lords, vorrebbero metterlo a ferro e fuoco attraverso il già citato gatekeeping (dimostrando di non aver afferrato il messaggio del film neanche per sbaglio, dal momento che quest’ultimo aborra certe pratiche).

Come se non fosse già abbastanza chiaro, questo è innegabilmente un teen movie e come tale va analizzato. Senza dubbio, l’accessibilità della narrazione a volte può risultare eccessiva, forse troppo edulcorata o elementare, e va puntualizzato. Ciò pesa ancor di più nel momento in cui entrano a far parte del racconto i temi delicati citati in precedenza – malattie mentali e misoginia – ai quali si affiancano la tossicodipendenza e il sesso. Questi vengono solo accennati e mai sviscerati a dovere: un difetto di una certa importanza se si considera il fatto che questo prodotto vuole essere il più universale possibile. Il mio consiglio, se siete in cerca di lungometraggi più impegnati da questo punto di vista, è quello di recuperare Metalhead di Ragnar Bragason.

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Metal Lords, stando alle critiche più dure degli spettatori, è forse un “High School Musical per metallari”? Assolutamente no. Fortunatamente mancano all’appello noiose e inutili canzoncine. È un’apologia del metal molto pulita, diretta e onesta che desidera attrarre soprattutto il pubblico di nuova generazione. Una generazione che si sente incompresa o addirittura ignorata. Peter Sollett e colleghi tentano di combattere l’emarginazione attraverso il trio degli Skullfuckers che, proprio come chi segue le loro disavventure, insegue sogni e ambizioni scendendo a patti con le più svariate paure e insicurezze.

Certo, i canoni classici – e ormai prevedibili – delle commedie per ragazzi vengono spremuti per bene e la struttura narrativa complessivamente è molto lineare, ma il mix finale non annoia. Personalmente, ammetto poi di aver trovato l’immancabile componente romantica – la B-Story tra Kevin ed Emily – tenera e innocente.

Quanto al lato tecnico ed estetico, la regia non presenta mai particolari guizzi o virtuosismi, preferendo rimanere posata e seguire la storia. Il montaggio è buono: dotato di quel ritmo serrato che, di tanto in tanto, sfrutta i tratti formali del videoclip per portare su schermo le scene adrenaliniche dove i nostri eroi suonano come pazzi. Utili, in questo senso, delle riprese che alternano campi medio-lunghi a dettagli di tamburi, piatti, plettri, corde e così via; perfette per lasciarsi avvolgere dall’energia di certi frangenti. In ultimo, pare – spero di non sbagliarmi – che gli attori alle prese con gli strumenti suonino per davvero, senza ricorrere a controfigure. Da batterista che ha assistito fin troppe volte a lungometraggi in cui l’atto stesso del suonare risultava palesemente finto, mi ritengo davvero soddisfatto.

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Per quanto mi riguarda, ho trovato Metal Lords di Peter Sollett e D.B. Weiss una piacevole sorpresa nel catalogo Netflix. Una pellicola che trova la sua forza in degli attori perfetti nelle loro parti e in una storia coinvolgente. L’amore autentico per il metal e la musica in generale è palpabile. Peccato per delle cadute di stile – non sempre giustificabili – che banalizzano certi frangenti e che potevano essere evitate arricchendo il racconto con 15-20 minuti in più. Per il resto, il lungometraggio fila via senza intoppi dimostrandosi perfetto per una serata tra amici o per chi, come me, cerca un prodotto leggero e intrattenente con cui tornare ragazzini scapestrati.




Nefasto Articoli
Videogiocatore incallito, cinefilo dalla nascita, attore di teatro e batterista da diversi anni. Adoro approfondire qualsiasi cosa abbia a che fare con l'arte e l'audiovisivo: è difficile fermarmi quando inizio a scrivere o a parlare focosamente di ciò che amo.

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