Kate, il feroce assolo di Mary Elizabeth Winstead

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ATTENZIONE: QUESTO ARTICOLO CONTIENE SPOILER MINORI

Altro giro, altra corsa: torno a parlare di un film il cui annuncio – con annesso trailer – mi ha irrimediabilmente attratto, soprattutto per la presenza di Mary Elizabeth Winstead che gode di un posto d’onore nel mio cuore per essere tra le attrici che apprezzo di più in assoluto, soprattutto dopo l’eccellente Scott Pilgrim vs. the World di Edgar Wright e nonostante il pessimo Birds of Prey. Lo scialbo e mal pensato Tom & Jerry ad opera di Tim Story aveva suscitato in me delle aspettative simili, poi quasi totalmente disattese. Questo Kate, lungometraggio d’azione scritto da Umair Aleem e diretto da Cedric-Nicolas Troyan, sarà riuscito a ripagare a dovere la mia curiosità nonostante il regista abbia firmato anche quella pattumiera de Il cacciatore e la regina di ghiaccio? Scopriamolo.

La trama è tra le più semplici del mondo, in pieno stile revenge movie, tant’è che persino il commento introduttivo offerto da Netflix si riduce a poco più di una riga:

Una spietata assassina viene avvelenata durante il suo ultimo incarico a Tokyo e ha meno di 24 ore per scoprire chi ha ordinato il suo omicidio e vendicarsi.

Inoltre, il trailer citato poc’anzi non solo parla di yakuza, ma informa anche che dietro questo film ci sono gli stessi produttori del fantastico Atomica Bionda. Potete ben immaginare le vette raggiunte dal mio hype negli ultimi giorni. Con queste dovute premesse è naturale che io mi sia gettato a capofitto nella visione.

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Un campo lungo e una didascalia al neon danno le prime coordinate spaziali: siamo ad Osaka. Kate, la protagonista, e il collega Varrick (un convincente Woody Harrelson) si apprestano a mettere in atto una nuova fase del loro piano, costato loro ben sette anni di lavoro: eliminare un bersaglio appartenente ad una potente famiglia locale di stampo mafioso. L’assassina non ha mai sbagliato in dodici anni ed è sicura di riuscire a portare a termine l’incarico. Purtroppo, come è prevedibile che succeda in questi film quando tutto sembra andare troppo bene, accade l’inaspettato, un’infrazione del protocollo: dall’auto che ospita la futura vittima viene fuori anche una bambina. Questo imprevisto fa vacillare Kate che, alla fine, è costretta a sparare comunque, freddando il malcapitato con due colpi di fucile di precisione ben piazzati e facendolo cadere tra le braccia impotenti della ragazzina che scoppia in un pianto disperato. Per quanto riguarda quest’ultima, le inquadrature indugiano molto su di lei facendoci già intendere – soprattutto se si conosce il trailer del lungometraggio – che avrà un ruolo di spicco nella narrazione; per ora, la sceneggiatura si astiene dal sorprendere lo spettatore.

Passano dieci mesi, l’ambientazione ora è la Tokyo dei giorni nostri. Il trauma di aver ucciso a sangue freddo davanti agli occhi di una testimone innocente porta la nostra killer a desiderare il ritiro per costruirsi una vita normale con una famiglia e dei figli (una trovata banale e già sentita). Varrick, che per la donna è sia un grande amico sia un mentore che l’ha istruita sin da piccola, le ordina di completare un’ultima missione prima di andarsene: uccidere il capo del già citato clan.

L’omicidio viene orchestrato nei primi dieci minuti di pellicola, l’appuntamento è alle 23:00 alla Mori Tower di Roppongi. Mentre Kate attende in un hotel, viene avvicinata da un uomo di nome Stephen (Michiel Huisman) che la corteggia; taglio di montaggio netto e i due finiscono a letto, cosa abbastanza strana poiché una professionista come Kate non dovrebbe farsi adescare così facilmente da uno sconosciuto (non a caso, dopo aver consumato, gli controlla i documenti di nascosto). Nella scena che coinvolge i due si vedono chiaramente, per giunta, due calici di vino vuoti; la regia vuole forse farci intuire qualcosa?

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Woody Harrelson nei panni di Varrick.

Ebbene sì, lo spettatore non deve certo essere un genio per capire che il cecchino è stato avvelenato come da copione: proprio mentre sta puntando il suo ultimo bersaglio – durante delle sezioni in notturna caratterizzate da una fotografia niente male che mi ha dato un vago sentore di Nikita – si sente male e sbaglia. In preda a vomito e convulsioni, e costretta a dileguarsi tra le strade della città, ruba in fretta e furia un’auto curiosamente dotata di neon rosa – rimando neanche troppo celato a John Wick 3: Parabellum – e di una radio che spara J-rock a tutto volume. Parte quindi un breve inseguimento con la polizia che ricorda moltissimo Initial D – in senso buono – peccato per la componente fotografica che stavolta dona al tutto una fastidiosa patina, avvicinando la scena ad un brutto videoclip (complici dei fastidiosissimi e onnipresenti lens flare).

Dopo essersi schiantata per poi risvegliarsi in ospedale, Kate scopre la verità sulla sua condizione: ha ingerito del polonio 204 che le ha causato una sindrome da radiazione acuta (SAR). Il film, con un veloce flashback della ragazza, ci conferma nuovamente quanto era possibile aspettarsi: la sostanza radioattiva era disciolta nel bicchiere di vino offertole da Stephen che, ovviamente, ha finto di bere dal suo. Ha così inizio la spirale di vendetta dell’assassina che non perde tempo a tornare alla dimora dell’avvelenatore per interrogarlo, una volta imbottitasi di stimolanti (che porta con sé sotto forma di siringhe); d’altronde ha solo un solo giorno di vita rimasto.

Il donnaiolo – vittima di un ricatto – credeva che la sostanza fosse semplicemente un sedativo per permettere “a loro” di perquisire la stanza. Loro chi? Kazuo Sato e i suoi scagnozzi, appartenenti al potentissimo clan Kijima, guarda caso la famiglia mafiosa che Kate e Varrick tallonavano da tempo. Alla Winstead – dotata sempre di una bellissima espressività che la rende perfetta per il ruolo – non resta che mettersi sulle tracce di Sato. Quest’ultimo è un contatto stretto dello stesso Kijima, il capo supremo della yakuza di Tokyo, che desidera vendicarsi a sua volta per la morte di Kentaro, suo fratello minore ucciso dalla stessa Kate a Osaka. Una questione d’onore insomma.

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Kijima è interpretato da Jun Kunimura. Ha lavorato con molti registi di spicco come Miike, Kitano, Hideaki Anno e persino Tarantino. Con quest’ultimo ha girato i due Kill Bill – che Kate cita apertamente – nei panni del boss Tanaka.

Siamo a poco più di venti minuti di film: la donna raggiunge il Black Lizard, un locale in stile tradizionale dove Sato e i suoi uomini partecipano a delle serate di teatro kabuki. Qui hanno luogo le sequenze più interessanti e riuscite della pellicola: il comparto fotografico stavolta è minimale e votato al bianco dei volti delle geisha – terrorizzate per l’arrivo di Kate – e delle stanze in cui si svolge l’azione. Con Kazuo la protagonista non esita: gli pianta un proiettile in mezzo agli occhi e interroga il suo braccio destro; disgraziatamente la pistola si inceppa, gli sgherri rimanenti partono all’attacco e il lungometraggio diventa Ryu Ga Gotoku, ovvero il momento che tutti stavamo aspettando. Le scazzottate sono girate in maniera chiara, il tutto grazie a riprese molto cinetiche che segmentano l’azione e permettono di seguirla da varie angolazioni; nonostante il movimento – di macchine a mano e non – sia indiavolato, risulta facile seguire ciò che accade a causa di un opportuno smorzamento delle occasionali oscillazioni della macchina da presa.

La violenza è gratuita: saltano dita, vengono squarciate gole, il sangue tinge di rosso le pareti del posto e alcuni stunt contribuiscono positivamente alla messa in scena generale (abbellita da occasionali slow motion ben dosati). L’unico sopravvissuto alla furia omicida di Kate le rivela che Ani (Miku Martineau), la nipote del boss, ha delle informazioni che potrebbero fare al caso suo. Sorpresa delle sorprese – si avverte l’ironia? – la ragazzina è proprio la stessa del prologo e, come se non bastasse, non è neanche brava a recitare. A questo proposito, il suo personaggio è il peggio caratterizzato di tutta la pellicola: una classica bimba viziata, incosciente e persino razzista, dal momento che si rivolge alla protagonista con l’appellativo di gaijin (“straniera” in modo dispregiativo). Questo suo temperamento fastidioso le fa guadagnare sonori maltrattamenti da parte della nostra eroina e io ne sono molto contento. “Apri le orecchie e parla di meno” credo sia tra le battute migliori rivolte alla bimba pestifera.

Per raggiungere in fretta Kijima, Kate pensa bene di rapire Ani e di orchestrare un’estorsione ai danni di Reiji, il consigliere della famiglia, portato in scena da Tadanobu Asano (Lupin III, Thor: Ragnarok). A questo punto si viene posti dinanzi a dei momenti senza senso a livello di scrittura; mi spiego: la ragazzina continua a lamentarsi e a prendere in giro la sua rapitrice – definendola addirittura “cancro ambulante” – tuttavia, dopo aver visto le sue numerose cicatrici in un bagno pubblico, ne resta paradossalmente affascinata per poi dirle “sei magnifica“. Non le faceva schifo fino a due secondi prima? Questo improvviso cambio di indole è effettivamente illogico, ma nella testa dello sceneggiatore ha una specifica funzione che illustrerò a breve.

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Miku Martineau è Ani, uno dei personaggi più irritanti che mi sia mai capitato di vedere in un action.

Per ovviare al rapimento della bambina, Reiji invia un suo sottoposto – Shinzo (Kazuya Tanabe) – e altri sicari. Lui e Kate si incontrano, la contrattazione non va in porto e parte una nuova sparatoria. Questa volta ho trovato carina l’idea di utilizzare elementi dello scenario per rendere la rissa più variegata. Le varie scene d’azione poi si spostano dentro i vicoli, nei negozi e nei locali della città, rendendo il tutto ancora più divertente. Sottolineo però che, per l’ennesima volta, la fotografia nella gran parte delle sequenze appesantisce la messa in scena con uno stucchevole blu scuro. Al cessare delle mazzate, Shinzo tenta di uccidere Ani definendola una “mezzosangue“; il perché del gesto verrà poi svelato verso la fine del film.

In sostanza, pare che il clan Kijima desideri fare fuori la ragazza e questa, giustamente, non vuole essere abbandonata da Kate (anche se lei vorrebbe liberarsene eccome). La piccola giapponese fa di tutto per convincere la nuova “amica” a portarla con sé e quest’ultima accetta più per mandare avanti la scontata trama che per effettiva volontà (immagino volesse evitare ulteriori rotture di scatole). Ecco spiegato il fatidico cambio di rotta di Ani che ho citato poc’anzi: credo che la sceneggiatura abbia voluto instaurare il tipico rapporto “nemiche-amiche” basato a sua volta sul tema – trito e ritrito – della solidarietà femminile. Per quanto sia una pensata dozzinale, avrebbe potuto lontanamente aggiungere qualcosa in più alle vicende, purtroppo però quello tra le due è un legame che nasce e si evolve troppo frettolosamente; fretta data dagli avvenimenti stessi che, per forza di cose, devono esaurirsi nel giro di una notte. In parole povere, non è credibile che Kate e Ani provino affetto l’uno per l’altra dopo così poco tempo. Non basta, in ultimo, un breve e sdolcinato monologo di Ani che vorrebbe approfondire la sua figura, senza riuscirci a dovere.

Come se non bastasse, oltre al danno arriva la beffa: la giovane si confida con la compagna dicendole “scommetto che è stato Kijima a uccidere mio padre” ed è qui che mi sono lasciato andare in una sonora risata, perché lo spettatore ormai sa bene cosa è successo a Osaka. Scommettiamo che Kate nasconderà il fatto di essere stata l’effettiva carnefice del genitore della ragazza (Kentaro) fino a quando la verità non verrà a galla e saranno – passatemi il francesismo – cazzi amari per tutti? E infatti è proprio ciò che accade, ma evito di spoilerare ulteriormente.

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Del lungometraggio si apprezza la volontà degli autori di non aver voluto rendere Mary Elizabeth Winstead una bambola acchiappa-pubblico. Kate è un’eroina che si sporca, si spettina e si riempie di ferite e sangue.

Come se ci trovassimo in L’ultima sfida di Bruce Lee e bisognasse sconfiggere tanti piccoli mini-boss per giungere al cattivone finale, un ultimo ostacolo si pone tra Kate e Kijima, ovvero Jojima, interpretato dal chitarrista e cantautore nipponico Miyavi (Kong: Skull Island). L’uomo è il fidanzato di Reiji e, ahimè, la sua omosessualità – Netflix sto guardando proprio te – lo porta ad essere un personaggio tagliato con l’accetta e sopra le righe. Meno male che crepa quasi subito per mano della nostra assassina, sollevando noi spettatori e il film dalla sua noiosa presenza.

Ugualmente noiosa è la battaglia contro di lui, resa in più irritante da una colonna sonora J-pop inadatta, probabilmente composta con l’apporto del gruppo Band-Maid che, oltretutto, gode di un fugace cameo. L’unico lato positivo del villain è il suo essere – almeno all’apparenza – un’inequivocabile citazione a Goro Majima della serie Yakuza: non ha una benda sull’occhio, ma i capelli, un accappatoio dorato e il nome molto simile non fanno altro che rinforzare la mia tesi.

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Vi sfido a darmi torto: è o non è la copia sputata di Majima?

Il film è ormai agli sgoccioli ed è proprio in queste fasi finali che si scoprono tutte le macchinazioni celate dal clan Kijima. Intrighi che coinvolgono anche il buon vecchio Varrick, portandolo fortunatamente ad essere una figura più utile di quanto pensassi ai fini dell’intreccio narrativo. La conclusione delle vicende vira sul caos, in senso buono: Kate si arma di tutto punto, si inietta un’ultima dose di adrenalina e diventa inarrestabile come Keanu Reeves nella saga di John Wick (citarla nuovamente non fa mai male). Nella caciara totale trova spazio anche il già menzionato Kunimura che dimostra – come se ce ne fosse bisogno – di essere un ottimo attore, oltre che un gran figo per una scena in particolare che, neanche a farlo apposta, potrebbe essere un vago rimando a John Wick – Capitolo 2.

Il reboante conflitto a fuoco finale e le sequenze di chiusura sono ben girati, ma la pervasiva colorazione blu appiattisce tutto, per non parlare poi di una ripresa a rallentatore troppo lunga che spezza improvvisamente il ritmo molto elevato dell’insieme. Il tutto conduce il racconto verso un epilogo sorprendentemente amaro e che ho apprezzato. Almeno in questo, Kate riesce a non essere prevedibile come è stato finora.

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La fotografia del film è di qualità variabile: alcune scene godono di colori accesi che uniscono un rosa violaceo al blu elettrico (tipico dei neon di Tokyo); altri momenti vengono appiattiti come se fossero usciti dal peggiore dei videoclip.

Per spendere le ultime parole sul lavoro di Nicolas-Troyan, posso dire che è stato onesto nel presentare la sua creazione come un action puro, adrenalinico e violento con cui passare una serata d’intrattenimento e che non pretende certo di ridefinire il mondo delle eroine cinematografiche. L’opera trova la sua essenza nel palese citazionismo sfrenato, passando in rassegna quasi tutti i capisaldi del genere: da Nikita Kill Bill, in confronto ai quali risulta solo una sufficiente e convenzionale imitazione.

A salvare la baracca e a strappare la suddetta sufficienza sono, ad ogni modo, diversi elementi: in primis Mary Elizabeth Winstead che si cala pienamente e comodamente nella parte; abbiamo poi un montaggio azzeccato a cura di Elísabet Ronaldsdóttir che rende Kate un prodotto non tedioso ma intrattenente e incalzante, non a caso lei è la stessa montatrice del primo John Wick – giuro che smetto di nominarlo – e Atomica Bionda.

L’ultimo elemento che dona qualche punto in più al risultato finale – insieme a dei buoni frangenti d’azione – è la voglia del lungometraggio di portare sul piccolo schermo un’estetica spiccatamente pop, quasi a volerlo avvicinare ad un anime. Chiudo evidenziando che il generoso uso di luci e colori al neon fa pensare che il responsabile della fotografia Lyle Vincent si creda alla pari di Nicolas Winding Refn e del suo The Neon Demon, cosa quanto mai impossibile.




Nefasto Articoli
Videogiocatore incallito, cinefilo dalla nascita, attore di teatro e batterista da diversi anni. Adoro approfondire qualsiasi cosa abbia a che fare con l'arte e l'audiovisivo: è difficile fermarmi quando inizio a scrivere o a parlare focosamente di ciò che amo.

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