Spectre

Lontano dalla perfezione di Skyfall, 007 si fa sempre più introspezione psicologica

Voto:

Dimenticare Skyfall è impresa ardua, così come non averlo dinanzi gli occhi poco prima che inizi la visione di Spectre sullo schermo; il primo capitolo della saga diretto dal talentuoso Sam Mendes (già regista di American Beauty e Revolutionary Road) è di fatto uno spartiacque all’interno della serie di pellicole ispirate alla nota figura spionistica di James Bond, creata da Ian Flemings. Dotato di grande forza visionaria, basato su una solida sceneggiatura, ricco di scene d’azione di grande effetto (la sequenza iniziale è al momento irreplicata), il capitolo precedente metteva in scena un parterre di personaggi ricchi di sfaccettature, dotati di forte personalità ed in grado di permetterci di cogliere un’aura di verosimiglianza qui totalmente assente. Skyfall tuttavia è un film a sè stante, un punto di non ritorno per 007, la qualità fatta cinema (emblematiche sono numerose scene, in cui script, abilità registica e fotografia creativa si miscelavano assieme, creando una amalgama di elementi in grado di rendere veritiere e digeribili scene d’azione al limite del credibile e trattenere momenti emozionanti all’interno del limite del melò) e replicare la magia di quel capitolo sarebbe stato quasi impossibile.

Le premesse per l’aumento incondizionato dell’hype, tuttavia, c’erano davvero tutte: l’ambientazione romana, l’introduzione del premio Oscar Christoph Waltz come villain principale e l’ammaliante bellezza di Monica Bellucci a far da cornice alle allegre scorribande del (attualmente) biondo agente segreto britannico. Difficoltoso che all’interno di un blockbuster come questo elementi mostrati in trailer e battage pubblicitario come punto di forza si rivelino in realtà dei meri specchietti per le allodole, eppure in Spectre accade ciò: la Roma protagonista di infiniti spot televisivi e promo cinematografici è ridotta ad una finestra temporale infinitesimale rispetto alla durata fiume della pellicola e per di più ripresa controvoglia (il segmento narrativo ambientato nella capitale è salvato unicamente dalla presenza massiccia di un’ironia che, evidentemente, il cinema americano continua ancora ad imputare al prototipo di italiano medio), il personaggio di Monica Bellucci è quanto di più inutile si sia visto in anni di cinema action (appare quasi dal nulla per scomparire senza lasciar traccia alcuna nello script, disorientando anche lo spettatore più benevolo e giunto con animo favorevole alla visione e lasciando presagire folli nottate Las Vegasiane per gli sceneggiatori al momento della stesura) ed i villain, monodimensionali e privi di spessore, utili unicamente allo sviluppo della vicenda e nulla più.

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Il film inizia laddove terminava il precedente capitolo, con la morte di M (la Judi Dench che, oltre ad essere il referente effettivo di Bond era anche l’alter-ego materno del personaggio) ed i ferventi preparativi per la sua successione. Il processo di smantellamento del progetto 00 è costantemente in atto ed il lavoro di Bond e colleghi sembra essere ormai giunto al capolinea: il successore di M ha iniziato un conto alla rovescia personale per permettere alle agenzie segrete di tutto il mondo di unirsi e poter coordinare le missioni, prive degli inutili ed antiquati agenti della sezione doppio zero. Al contempo Bond si ritrova a Città del Messico, prima di una (abbastanza) lunga serie di interessanti (sopratutto a livello visivo) località, per uccidere Marco Sciarra, seguendo quelle che erano le ultime volontà di M, giuntegli tramite messaggio postumo. Destituito dal proprio incarico, giunge nella capitale italiana per assistere ai funerali di Sciarra, durante i quali conoscerà la moglie del defunto e le generalità del capo dell’organizzazione criminale a cui questo apparteneva. Franz Oberhauser, ufficialmente deceduto venti anni prima in una valanga con il padre, è al contempo il mandante del lento omicidio di Mr. White, una vecchia conoscenza di 007, la quale fa promettersi, prima di uccidersi, la difesa della propria figlia. Bond parte quindi alla volta dell’Austria, ma il suo viaggio sarà molto più lungo e difficoltoso.

Si sa, i panni sporchi si lavano in famiglia e questo gli sceneggiatori degli ultimi capitoli di 007 sembra lo abbiano capito bene, propinandoci con il contagocce elementi e personaggi della vita precedente di Bond che, talvolta, sembrano apparire forzati e pretestuosi, tanto paiono esser inseriti con costrizione (valido esempio sono le fotografie di famiglia che compaiono nel corso del film, mostrate più e più volte come segno di riconoscibilità del passato del personaggio, ma al contempo similmente agli spiegoni modello soap che infarciscono gli schermi televisivi moderni). E’ tuttavia lodevole il tentativo di sviluppare un retroterra familiare per il personaggio che, altrimenti, rimarrebbe una icona action priva di spessore e psicologia personale, concentrata unicamente nel fuggire dai cattivi o nel rincorrerli; tentativo che, a detta di molti, pare ricalcare pedissequamente il lavoro eseguito dai Nolan brothers per la saga del Cavaliere Oscuro, tanto a fondo la sceneggiatura sembra voler scavare per riscoprire il lato umano di un personaggio che, altrimenti, sarebbe stato destinato a diventare unicamente un brand utile alla monetizzazione della semi-fallimentare (economicamente) MGM. E’ così che pare realizzarsi all’interno della pellicola un capovolgimento della saga spettacolare tanto quanto le scene action di cui erano infarciti i precedenti capitoli, permettendo a Spectre di ritagliarsi un ruolo di tutto rispetto all’interno della lunga serie di film dedicati all’agente britannico.

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Sam Mendes ce la mette tutta, tentanto di bissare il precedente capitolo e rendere anche Spectre (la cui sceneggiatura, sopratutto nella parte iniziale, sembra perdere di mordente) un prodotto griffato dal suo stile riconoscibile, tuttavia fallisce il tentativo sopratutto nella prima metà, dove la regia è in completo disaccordo con la seconda parte della pellicola; quando la sceneggiatura pare svilupparsi maggiormente e dare spazio ai silenzi più che alle esplosioni, in quel momento esplode anche il talento di Mendes, inondando la pellicola del suo stile elegante, frutto di numerose sperimentazioni anche indipendenti (il suo American Life ne è un esempio). Il piano sequenza iniziale, statico oltre ogni limite (sopratutto per chi ha ancora in mente l’inarrivabile piano sequenza della quarta puntata della prima stagione di True Detective, in cui la macchina si muoveva insieme al proscenio, in un turbinio estatico di immedesimazione nell’azione e verosimiglianza narrativa) e lontano dalla sequenza iniziale di Skyfall, in cui il ritmo era maggiormente accelerato e le riprese convergevano verso un montaggio che donava loro spigliatezza e consequenzialità, sembra far incagliare la pellicola nei primi minuti e non permetterle più di riprendersi. Stranamente il film si risolleva dopo la prima metà quando, superato il brevissimo intermezzo romano, si giunge sulle Alpi e si aprono le danze per la vera evoluzione del personaggio.

Il montaggio è grezzo, in alcuni punti le scene sembrano tagliate con l’accetta e il ritmo latita, aiutato unicamente dalla regia di Mendes e dalla bella fotografia di Van Hoytema (già al lavoro sui bellissimi Her e Interstellar), la quale mostra la propria forza sopratutto negli interni. I personaggi interni all’ MI7 ricevono qui molto più spazio rispetto al precedente capitolo, risultando in scena e nella percezione dello spettatore al pari (se non più importanti) dei villain; tutto il lavoro realizzato sul personaggio di Bond non lo si ritrova, ad esempio, in Monica Bellucci (il cui personaggio, sviluppato come una delle tante fiamme di 007 destinate a spegnersi in breve tempo appare e scompare senza reale continuità, lasciando spiazzato lo spettatore) e nei villain. Se Bautista merita uno spazio commisurato al suo personaggio, Waltz si ritrova qui sprecato, imbrigliato in un ruolo i cui confini sono stretti e la presenza scenica effettiva è molto minore del Raoul Silva di Bardem. La Seydoux esce fuori vittoriosa dalla sceneggiatura di Spectre, condividendo con Craig il miglior sviluppo narrativo possibile e prendendosi letteralmente la scena nelle (meravigliosamente riprese) catene austriache innevate.

Spectre è il canto del cigno del Bond interpretato da Craig e della reinvenzione del personaggio iniziata con l’era Mendes; il finale da adito a pochi dubbi e per il biondo e freddo agente è giunta l’ora del commiato. Spectre risulta, quindi, il capitolo finale di una quadrilogia che ha permesso un reboot totale sia del personaggio che della messa in scena visiva dei racconti, permettendo alla saga di elevarsi al di sopra di molte altre produzioni action analoghe. Si salutano così, quasi malinconicamente (pur nei difetti del film, che vengono tuttavia bypassati dai pregi) uno dei migliori Bond di sempre, reso ancor più interessante dal talento registico di Mendes e dalla bravura di un comparto tecnico che ne ha reso un prodotto degno di menzione autoriale.




Fulcho Articoli
Cinefilia o cinofilia? Non ancora riesco a distinguere. So solo che amo il cinema, con tutto me stesso e non posso vivere senza. Toglietemi tutto, ma non la mia pellicola.

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