Indiana Jones e il Quadrante del Destino

indiana jones e il quadrante del destino

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Quando nel 2016 annunciarono il quinto capitolo di Indiana Jones, iniziai subito a farmi i calcoli su quanti anni avrebbe avuto il buon Harrison Ford durante le riprese, e non nego che le preoccupazioni (unite ad un ghigno quasi isterico) furono molte. Se Indiana Jones e il Regno del Teschio di Cristallo era già un sequel fuori tempo massimo, quanto sarebbe stato credibile un Indiana Jones quasi ottantenne? Molto poco, mi dissi all’epoca, ma dopo averlo rivisto all’opera nella sua ultima avventura penso di essere giunto a una nuova conclusione: in un modo o nell’altro, Harrison Ford è sempre credibile perché lui È Indiana Jones.

Alla regia per la prima volta non troviamo Steven Spielberg (rimasto insieme a George Lucas solo come produttore esecutivo) bensì James Mangold, e se questo di primo acchito potrebbe già sembrare un’eresia, è sempre bene ricordare che Spielberg ha diretto anche il non brillantissimo quarto capitolo della saga, e che tra i precedenti lavori di Mangold ci sono ottimi film come Le Mans ’66 e Logan.

Indiana Jones e il Quadrante del Destino ci catapulta nel 1969, in un mondo dove gli archeologi hanno lasciato il posto alle avventure spaziali degli astronauti, ma dove antichi reperti del passato possono ancora far gola a vecchi nazistoni di ferro. Ebbene sì: dopo i russi del quarto episodio, tornano prepotentemente i nemici per antonomasia di Indy, i “cari” vecchi nazisti, questa volta sotto mentite spoglie e alla ricerca dell’Antikythera di Archimede.

L’Indiana Jones che ritroviamo in questo film è piuttosto diverso da come lo avevamo lasciato: è un anziano professore sulla soglia della pensione, stanco, disilluso, con acciacchi fisici e problemi familiari che lo portano ogni tanto ad alzare il gomito. Al suo fianco troviamo la figlioccia Helena (Phoebe Waller-Bridge), figlia del defunto amico Basil (Toby Jones), che dai padri ha ripreso la passione per l’avventura e per l’archeologia, un po’ meno la caratura morale. Il suo personaggio è l’unico di cui si ha una caratterizzazione leggermente più approfondita, e nonostante la verve, la bravura dell’attrice e il ruolo di peso all’interno della storia, non ruba affatto spazio al protagonista, anzi, al di là del divario generazionale il loro affiatamento può essere considerato uno dei punti di forza del film.

Dall’altra parte invece troviamo Jürgen Voller, scienziato nazista e vecchia conoscenza di Indy, di cui alla fine si sa poco o nulla, ma che riesce comunque a risaltare come villain grazie al carisma e l’interpretazione di Mads Mikkelsen. Il suo scagnozzo Klaber è interpretato da Boyd Holbrook, in una parte che non lo valorizza abbastanza ma che lo rende abbastanza odioso da far desiderare al pubblico la sua morte. A contorno, oltre a personaggi nuovi come il già citato Basil o il giovane Teddy (che prova a fare il verso al caro Shorty de Il Tempio Maledetto), ritroviamo anche vecchie conoscenze come Sal, interpretato sempre da John Rhys-Davies.

Indiana Jones e il Quadrante del Destino è una pellicola molto rispettosa della mitologia della saga, un’operazione non solo commerciale, ma realizzata da persone che chiaramente ci tenevano (in primis il protagonista, al contrario della sua “avversione” per Han Solo) e volevano darle una chiusura degna della sua storia quarantennale. James Mangold non è Steven Spielberg e di certo non vuole imitarlo, ma non è neanche un mestierante qualsiasi e riesce a portare la sua impronta senza strafare, con una regia asciutta, dirigendo buone scene d’azione e complessivamente restando in linea con i precedenti capitoli.

Certo, non mancano dei problemi, a partire da una durata troppo lunga (154 minuti) che appesantisce il film soprattutto nella parte centrale, dove si finisce per andare da un punto A a un punto B, da un punto B a un punto C, con talvolta sequenze d’azione che si sarebbero potute sfoltire. Nulla di noioso, sia chiaro, ma in certi momenti inizia a frullare in testa il pensiero: “sì, va bene, ora andiamo avanti però…”.

In qualche sequenza forse si gioca un po’ troppo con la sospensione dell’incredulità, ma andando ad analizzare anche le vecchie pellicole, ci si rende conto che è una peculiarità alla quale le avventure di Indiana Jones ci hanno sempre abituato. La storia è piuttosto quadrata, semplice, le interazioni tra i personaggi seguono un canovaccio già visto nella saga, e il regista (anche co-sceneggiatore) decide di non prendersi particolari rischi, scelta che in fondo può rivelarsi saggia, anche se parte del folle finale potrebbe far storcere il naso a qualcuno.

Il ringiovanimento in CGI di Harrison Ford nel coinvolgente prologo ambientato nel 1944 è tutto sommato promosso, anche se le sbavature non sfuggiranno sicuramente agli occhi più attenti, così come non è raro distinguere l’attore dal suo stuntman (d’altronde l’età è quella che è, e Ford non è mai stato un folle come Tom Cruise). Sulle musiche non mi soffermo più di tanto, anche perché c’è poco da dire: sottolineare l’abilità di John Williams anche nel riarrangiare le sue composizioni, dopo 70 anni di carriera, sarebbe come complimentarsi con un cardiochirurgo di fama mondiale perché conosce alla perfezione l’anatomia del cuore.

Indiana Jones e il Quadrante del Destino non sarà l’avventura esaltante a cui ci avevano abituato i primi tre capitoli, ma nonostante tutto riesce a coinvolgere. Senza giocare troppo con la solita mielosa nostalgia, il film tra scazzottate con i nazisti, misteri, insettoni, ironia e citazioni riesce a farci riassaporare le atmosfere e lo spirito che ci hanno portato ad amare questa saga. Ovviamente nel 2023 le cose non possono essere esattamente le stesse di un tempo, ma sono cambiate così come noi spettatori e lo stesso Indy.

Più che un quinto capitolo, Indiana Jones e il Quadrante del Destino a tratti dà più l’idea di essere un vero e proprio omaggio all’iconico personaggio di Harrison Ford e l’intera saga di cui è protagonista. Un omaggio non perfetto ma sincero, che riuscirà a scaldare il cuore dei fan di vecchia data, e forse in fin dei conti è proprio questo che lo rende un piacevole e degno finale delle avventure del grande archeologo con cappello e frusta.




Il Tac non è un critico cinematografico o uno studioso di cinema, ma semplicemente un cinefilo, seriofilo e all'occorrenza fumettofilo, a cui piacere mettere il becco su tutto quello che gli capita sotto mano... o sotto zampa.

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