10 Cloverfield Lane

Voto:

Recentemente il dibattito sulla legittimità o meno dell’introduzione del sotto-filone mockumentary all’interno del più ampio gruppo degli horror sembrava destinato ad interrompersi, con il repentino crollo della produzione di prodotti aderenti a tale modalità di ripresa. Il genere riscoperto da Oren Peli con Paranormal Activity, ma già ampiamente sviluppato nel passato con pellicole come l’italiano Cannibal Holocaust (prototipo del 1980), la saga spagnola di Rec (il cui terzo capitolo opera una sorprendente interruzione e vira in direzioni totalmente differenti) e il fenomeno virale di The Blair Witch Project, attira relativamente poco e gli ultimi sussulti di originalità sembrano relegati a poche opere (The Visit è una di quelle). 10 Cloverfield Lane è al contempo dentro e fuori il fenomeno Cloverfield, una pellicola diretta da J.J. Abrams (la mente dietro la serialità di Lost, Fringe e i lungometraggi Super 8, Into Darkness e The Force Awakens) che ha saputo dimostrare come con sapienza si potesse sfruttare una tipologia di ripresa poco praticata e molto detestata. I puristi ed i classicisti cinefili dinanzi una camera a mano come quella che conduce le danze nel film di Abrams uscirebbero dalla sala con lo stomaco rivoltato, incapaci di cogliere le potenzialità di una vera e propria full-immersion all’interno della storia, una capacità di coinvolgimento nella narrazione unica nel suo genere e per questo reiterata per anni.

Questo ideale seguito, che vaga per lo più dalle parti dello spin-off, si discosta con fermezza dal suo predecessore, cerca di crearsi un mondo parallelo che possa interagire almeno parzialmente con il capitolo primo, annullando lo stile mockumentary e ritornando su binari tradizionali. Dan Trachtenberg, al suo esordio sul grande schermo, tenta un approccio minimalista che a molti potrebbe far storcere il naso, ma che ben si adatta alla commistione di generi studiata in fase di scrittura; Cloverfield Lane si muove in direzioni differenti, abbracciando generi come il thriller, l’horror puro che in alcuni momenti fa capolino, il fantascientifico e alcuni accenni di dramma. La composizione dell’intreccio, con i propri personaggi racchiusi all’interno di un’unica location, avvicina questo film a diverse pellicole uscite in questi anni, soprattutto commedie e drammi Kammerspiel, al modo di Perfetti Sconosciuti e Il Nome del Figlio, e nell’incipit appaiono evidenti rimandi a questi generi, riportando alla mente i fasti dei luoghi cupi e claustrofobici dove si adoperava l’Enigmista nei primi anni duemila.

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Michelle è nella sua auto e si ritrova a percorrere una strada deserta, nel buio della notte. Sembra di fretta, come se stesse fuggendo da qualcuno. Ad un certo punto le squilla il telefono e dall’altro capo dell’apparecchio c’è il suo ragazzo, che la implora di tornare sui suoi passi e ricredersi sul litigio avvenuto poco prima. La donna è irremovibile e non ammette repliche; senza un minimo accenno lascia cadere l’appello nel vuoto e continua la guida. Dopo alcuni chilometri un boato lancinante, un rumore di ferraglia e l’auto si capovolge, uscendo di strada. Al suo risveglio Michelle si ritrova stesa su un lettino, in un ambiente vuoto e dalla parvenza fatiscente, la gamba fasciata e stretta ad un tutore, nessuno intorno a lei. L’uomo che le si presenta come suo salvatore la avvisa di un attacco catastrofico avvenuto in superficie e del loro riparo sicuro ottenuto in un bunker sotterraneo. Insieme a loro un terzo uomo, colui che ha costruito quel bunker. La ragazza dovrà decidere da che parte stare quando alcuni piccoli indizi la porteranno a titubare delle parole proferite dall’uomo.

La differenza sostanziale col primo Cloverfield, oltre che sullo stile, ha riverberi anche sulla narrazione, dove alla coralità del gruppo di ragazzi fuoriusciti dal festino nel primo capitolo si sostituiscono qui tre personaggi, versioni aggiornate e maggiormente coscienziose rispetto ai loro avi cinematografici. Cloverfield Lane è la versione adulta di Cloverfield, la raggiunta consapevolezza di poter maneggiare una determinata tematica sfruttando molteplici approcci, combinando diversi personaggi, creando mondi paralleli e storie che si interconnettono tra loro. Stretti in pochi metri quadri i rimpianti tornano alla luce, le psicologie si ispessiscono e si assottigliano a seconda delle sequenze, in un curioso gioco narrativo che mantiene sempre altissima la tensione creata dal regista, palpabile per gran parte della durata. La paranoia predomina sugli altri sentimenti, lasciando insorgere, nella ragazza prima e nel costruttore dopo, domande sulla reale figura del proprietario del bunker e su ciò che sta avvenendo all’esterno. La schermatura in cemento e la tenuta stagna impediscono di percepire ciò che realmente accade lì fuori, permettendo allo spettatore di vivere la titubanza, l’insicurezza, il timore e l’ansia in cui vivono i protagonisti.

John Goodman as Henry; Mary Elizabeth Winstead as Michelle; and John Gallagher Jr. in 10 CLOVERFIELD LANE; by Paramount

Poggiati schiena al muro, soli contro l’incertezza che li divora, i due ragazzi snocciolano i loro problemi dimentichi della loro condizione momentanea, cercando di rifugiarsi nel passato e adoperandosi in una seduta psicologica particolare, dove entrambi si analizzano tra loro e si evita la fuga continua, scorciatoia vitale usata poi in seguito come espediente scaturente dal panico, fuga che è anche un filo che lega la situazione attuale alla vita infantile della protagonista. La regia sembra latitare per gran parte del film, lasciandoci indifferenti fin nei passaggi precedenti l’ultima fuga, quando d’improvviso prorompe lasciandoci intuire le potenzialità inespresse dell’autore, tenute latenti a lungo per la particolare fisionomia della narrazione messa in atto. Se il discorso interpretativo per Goodman non si pone (gigante sia in statura che in bravura, attore dal talento inespresso, spesso relegato a ruoli secondari che meritava questa parziale rivincita), menzione particolare va fatta per Mary Elizabeth Winstead, la protagonista che dimostra l’anti-stereotipia del suo personaggio e la sublima con un’ottima performance, merito anche di un buon lavoro di scrittura psicologico focalizzato sui tre personaggi. Tre infatti è il numero perfetto, prepariamoci quindi anche ad un ultimo capitolo.




Fulcho Articoli
Cinefilia o cinofilia? Non ancora riesco a distinguere. So solo che amo il cinema, con tutto me stesso e non posso vivere senza. Toglietemi tutto, ma non la mia pellicola.

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