The Hateful Eight

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L’epopea Tarantiniana nel genere western sembra non essersi, per il momento, fermata. Sin dagli albori della filmografia del regista premio Oscar (“purtroppamente”, come direbbe Albanese, non per la regia ma unicamente per le sceneggiature di Pulp Fiction e Django Unchained) il genere western è apparso come contaminazione degli innumerevoli spazi filmici proposti, miscelandosi con il noir, il pulp, il revenge movie, l’horror, il film storico e numerosi altri e mostrandosi chiaramente nelle sue pellicole come pregnante di una visione registica e al contempo cinefila che si vuole basata su un amore incondizionato verso il cinema di genere, in particolar modo per quello italiano (il suo attaccamento a certo cinema, come il B-movie, ha permesso la riesumazione di pellicole troppo a lungo dimenticate e la creazione di una sezione nel Festival del Cinema di Venezia rigorosamente dedicata a tali proposte filmiche). Tarantino massacra il genere tradizionale e lo reinventa continuamente nelle sue contaminazioni, seguendo il felice esempio di mestieranti da lui idolatrati come Fulci, Bava e D’amato, che nelle proprie opere dissimulavano la presenza di un determinato elemento di genere e sullo stesso ne innestavano molteplici di un genere completamente diverso. Questo è il motivo per cui The Hateful Eight, oltre al western cui chiaramente si vuole ispirare, sembra attingere a piene mani dal genere exploitation, i film in cui la parte del leone è affidata alla violenza (gratuita o giustificata che sia) e i protagonisti si barcamenano all’interno di un copione al servizio di un crescendo ansiogeno al cui orizzonte sembra profilarsi un finale massacro.

Hateful Eight è dichiaratamente un revenge movie, come i precedenti di Tarantino, un film in cui la vendetta personale o collettiva si riflette nell’intero intreccio divenendo lo snodo narrativo intorno cui sviluppare i personaggi, o per meglio dire i tipi tipicamente tarantiniani. La vendetta ricercata da Uma Thurman in Kill Bill è qui volontà di redenzione di un ideale, il nordista a scapito del sudista, il quale vede fronteggiarsi due teste da giganti del suo cinema alla ricerca di una risoluzione che tarderà ad arrivare e, quando si mostrerà agli occhi dello spettatore, sarà crudele e brutale come la causa scaturente. Il paesaggio che accoglie lo spettatore si mostra difficile sin dai primi fotogrammi, le innevate radure nordamericane vengono solcate senza fretta da una diligenza che taglia lo schermo in diagonale, accompagnata dalle note sibilanti del glaciale vento nordico e da una croce intagliata nel legno che sembra volerci avvertire delle sciagure prossimamente in atto sullo schermo, opera di redenzione personale (ma non spirituale, dato che ogni animo rappresentato ha un buon motivo per non essere incluso in un ipotetico paradiso), lambendo in quel limbo che sembra essere l’emporio di Minnie. Quasi stazionando in un’unica ambientazione, i caratteri si muovono costretti e soggiogati dal freddo polare, limitando i propri movimenti all’interno di uno spazio circoscritto che oltre a La Cosa di Carpenter sembra rimandare anche ad un cambio di vocale, quel La Casa di Sam Raimi oggetto di culto per cinefili horror di tutto il mondo e ultimamente riproposto nelle sale in veste rinnovata.

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I titoli iconici da tipico spaghetti western inaugurano la pellicola e ci permettono di immergerci in una sorta di viaggio nel passato, così nostalgico eppure così diverso dai nostrani duelli con stivali e pistole, immerso in un contesto che si vuole originale e tipico per il genere in cui la neve troneggia a nuova sabbia, il sangue si mesce con il ghiaccio e non con il fango e dove le travi si tingono di rosso, impedendo al freddo di entrare. Il microcosmo tarantiniano è tutto lì, racchiuso all’interno di quattro mura (o, per meglio dire, pareti di legno) e serrato all’interno da una sgangherata porta presa a calci e ricucita a stento dai chiodi, con personaggi che vi si muovono alla stregua di uno spettacolo teatrale, una pièce ordita dal regista su un palcoscenico (di legno) in cui i personaggi si muovono sotto comando di invisibili fili registici, talmente impossibili da ammirare ad occhio nudo che tutto pare così, tremendamente, verosimile. La macchina da presa di Tarantino si fa infinitamente piccola per permettere a sè stessa di aggirarsi indisturbata tra giganti della recitazione che si rivelano nel corso della prima parte della pellicola, imponendosi di evitare virtuosismi e tecnicismi, ma lasciando che la vicenda si dipani autonomamente, senza esasperazioni dei movimenti e priva di quelle zoomate di cui il filmaker aveva infarcito la precedente opera, quella rivisitazione del mitico Django in cui si era permesso di gigioneggiare sia in sede di sceneggiatura che con i mezzi filmici.

Sviluppandosi su uno script ricco di spunti, Tarantino estetizza la morte come nessun regista, ne analizza i prodromi, segue gli sviluppi anticipatori e sfrutta ogni frammento della propria perizia per sezionare gli ultimi istanti di vita di un protagonista. La morte dal punto di vista del boia (il bravo Tim Roth, cui viene affidato il nome di Oswaldo, protagonista di un gustosissimo sketch con il gigante Russell) diventa il momento perfetto per esprimere la propria filosofia sulla vita e sulla giustizia, un sentimento che trasuda in differenti modalità nel percorso cinematografico tarantiniano, e che si riallaccia idealmente al sentimento della fiducia, quella che nel momento del suo mancamento procurerà le necessarie circostanze per avviare il cambio di rotta della pellicola. Hateful Eight è un road-movie in diligenza nella prima parte ed un kammerspiel da emporio nella seconda dove l’azione si muove circoscritta in un ambiente dal caldo tepore, rischiarato dal focolare, oasi di (apparente) pace divisa da pochi centimetri di legno dalla tormenta che infuria all’esterno. Dieci piccoli indiani qui si fanno in otto, Tarantino ci gioca alla guerra delle psicologie prim’ancora che alla guerra vera e propria, facendoli incontrare, alimentandone i dubbi, scontrandoli e mettendoli a nudo in un film di sceneggiatura in cui lo script è il vero protagonista. Nel corso della visione siamo costretti dalle catene anche noi, come Daisy Domergue (una incredibilmente ironica Jennifer Jason Leigh, la migliore del lotto), incollati alla giostra che il regista ci ha preparato e dalla quale non possiamo allontanarci nemmeno per un istante, pena l’esclusione dal gioco.

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Non è un gioco al massacro fine a sè stesso, non è nemmeno una pellicola priva di morale; Tarantino ci impone la propria morale, la propria visione di vita (venendo tacciato di misoginia ingiustamente, dal momento che il personaggio della Leigh è forse il più paradigmatico ed il più forte caratterialmente del gruppo), la sua filosofia su tematiche come morte, giustizia, fiducia, chiudendo ogni porta ad un possibile altro tentativo di interpretazione. Porte che si aprono per poi, subito, richiudersi, come in un palco teatrale, a mo’ di quinte, permettendo l’ingresso dei protagonisti nella scena e la loro ritirata, lasciando sempre quel poco di spazio necessario al movimento minimale della macchina da presa. Camera che carrella sui dettagli delle calzature in movimento come su quelli della discesa dalla diligenza nel prologo inserito, a sorpresa e ad effetto, all’interno della narrazione, primissimi piani sui volti e dettagli sul taglio degli occhi alla Sergio Leone, camera a fil di piombo che sorvola la stanza e getta uno sguardo timoroso ma voyeuristico oltre le travi, rovistando tra esse per scoprire un nuovo personaggio. Tarantino si diverte e ci fa divertire, costruendo un complesso gioco di ruoli che di disvela nel corso della narrazione senza troppa fretta, impedendo di parteggiare per questo o quel personaggio, ma rendendoci ugualmente partecipi attenti degli eventi.

Morricone dimostra il proprio talento dando il meglio di sè, componendo una delle partiture musicali più intense e belle di sempre, accompagnando la visione della pellicola ad un sonoro ineccepibile: sibili, ansimi, spari risuonano nella gelida aria facendoci insinuare il freddo nel sottopelle, come già avveniva in Revenant. L’epicità di alcune scene (la canzone natalizia intonata, stonando, al piano mentre in controluce e con un filo di nevischio appare il bravissimo Samuel L. Jackson) si scontra con il tentativo di addolcire alcune sequenze (l’accompagnamento musicale creato dalla Leigh cantando e suonando la chitarra, dal tragico epilogo), rendendo il film un puzzle di sequenze tutte, a loro modo, riuscitissime. Il lungo incipit iniziale è funzionale e mostra una dote ironica senza pari, tipica di Tarantino, la parte centrale (forse la più lenta ma non la meno importante) è la più accurata nella messa in scena, il pre-finale è un colpo di genio che ricollega ogni frammento e lo inanella in uno script, come al solito, ineccepibile. Veniamo chiusi istantaneamente nella stalla, ci serrano all’interno dell’emporio con loro, ci viene impedito di fuggire dall’ambiente comune in cui si ritrovano, costringendoci alla visione forzata del loro gioco psicologico, rendendoci partecipi e complici dello stesso, quasi facendoci pentire di non potervi partecipare. In fondo, non è davvero così male questa reclusione, non trovate?




Fulcho Articoli
Cinefilia o cinofilia? Non ancora riesco a distinguere. So solo che amo il cinema, con tutto me stesso e non posso vivere senza. Toglietemi tutto, ma non la mia pellicola.

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