
Cos’è che rende un film “autoriale”? Una regia ricercata? Una trama che si snocciola in modo non convenzionale? Uno stile riconoscibile? Quest’ultimo sicuramente non manca a Wes Anderson, che negli anni è riuscito a rendere personale e immediatamente riconducibile a sé stesso qualsiasi frame del proprio cinema; e sono davvero pochi i registi che riescono in quest’impresa, soprattutto nel moderno mondo dell’intrattenimento cinematografico.
A partire da Grand Budapest Hotel, del 2014, lo stile di Anderson ha virato prepotentemente verso un’estremizzazione radicale, non solo a livello estetico, ma principalmente contenutistico. È da quel film infatti che il regista texano sembra – con l’eccezione de L’isola dei cani – più interessato alle metanarazzioni cervellotiche e intellettuali rispetto all’emotività e l’umanità che animavano i film della prima parte della sua carriera.
Se Asteroid City mostrava marcatamente quell’aridità emotiva, nella quale i personaggi sembravano ormai solamente burattini da muovere a piacimento, probabilmente è il successivo antologico La meravigliosa storia di Henry Sugar e altre tre storie il vero punto di non ritorno: tratto da racconti di Roald Dahl, ma completamente agli antipodi di quel capolavoro di trasposizione che era Fantastic Mr. Fox. In Henry Sugar Wes Anderson ha mostrato tutti i limiti della sua fase intellettuale, fatta di narratori multipli inaffidabili e scene plastiche da natura morta, completamente prive di qualsiasi interesse se non quello dell’esercizio di stile.
La Trama Fenicia, a distanza di solamente un anno da quest’ultimo progetto, sembra quasi un vago tentativo di riavvicinarsi alle proprie origini, raccontando quindi una storia molto più semplice e lineare, concentrandosi sui personaggi e le loro relazioni. Il film narra di “Zsa-zsa” Korda (Benicio del Toro), un magnate che sogna di mettere in atto il suo piano di industrializzazione della Fenicia, un Paese fittizio. Korda viene spesso intralciato dai suoi avversari economici sia con manipolazioni del mercato che con veri e propri attentati, ai quali però è sempre sopravvissuto.
Dopo l’ennesimo “incidente” aereo a cui sopravvive miracolosamente, Zsa-Zsa si decide a mettere finalmente in moto la “Trama Fenicia”, tuttavia per farlo ha bisogno di colmare un gap di fondi che i suoi investitori gli avevano promesso, ma che sicuramente non vorranno pagare. Armato quindi della sua unica figlia femmina, Liesl (Mia Threapleton), che nel frattempo si è fatta suora, e del nuovo tutore amministrativo Bjorn (Michael Cera), Korda inizia un viaggio alla volta della raccolta fondi, che in realtà servirà principalmente a rimettere insieme una famiglia separata dal denaro e dalle ambizioni capitalistiche.
Nonostante il film sia, come i precedenti, diviso in piccole storie, una per ogni incontro che i nostri protagonisti faranno alla ricerca dei fondi, queste sono molto più consequenziali e lineari rispetto alle ultime opere del regista, quasi come fossero i capitoli di un libro, com’era ad esempio per I Tenenbaum. Non c’è neanche un forte afflato metanarrativo, nonostante sia presente una seconda narrazione che si interlaccia a quella principale: le visioni del paradiso che Korda ha ogni volta che si trova vicino alla morte, nelle quali spicca un inaspettato Dio. La trama scorre quindi in modo semplice, nella maniera tipica di Wes Anderson di realizzare commedie, ricca di battute e momenti surreali, personaggi stravaganti e physical comedy.
Il punto di forza del film da questo punto di vista sono sicuramente gli attori protagonisti, tutti “novizi” del regista fatta eccezione per Benicio del Toro, già apparso in ruolo secondario in The French Dispatch, del quale ricicla la mise con la tunica e la barba lunga nelle scene bibliche. Mia Threapleton ma soprattutto Michael Cera sono in formissima, e hanno entrambi dei tempi comici perfetti; sono loro due da soli a reggere il film per quasi due ore. Altra scoperta comica è sicuramente Mathieu Amalric, che nel suo breve segmento riesce a brillare e farsi ricordare come uno dei personaggi migliori della storia, cosa che invece non si può dire per il resto del cast, ridotto a interpretare delle macchiette bidimensionali utili solamente a far procedere la narrazione. Non basta sentire uno dei soliti giri di archi di Alexandre Desplat per caratterizzare i personaggi o le scene, quando questi ormai si confondono tra tutti i film realizzati dal regista, specialmente gli ultimi.
Se quindi, almeno in apparenza, questo tredicesimo film di Wes Anderson sembra aver ritrovato una verve ormai perduta, il vero problema rimane la quasi totale inutilità del progetto non solo per la filmografia del regista, ma proprio come opera cinematografica. Nel momento in cui anche Asteroid City, nel suo essere glacialmente intellettualoide, provava effettivamente a intavolare un discorso (pretenzioso) sul rapporto opera-autore, al termine di questo film si rimane con una sola domanda in mente: “perché mi sarebbe dovuto importare qualcosa di quello che ho visto?”
Certo, ci si diverte e si ride anche, ma alla fine della fiera La Trama Fenicia suscita un qualcosa che è perfino peggio dell’odio viscerale: la totale indifferenza. Ed è una sensazione che i film di Anderson, fino a questo momento, non avevano mai fatto provare. Quello che ci si può augurare è che il regista si prenda una piccola pausa dal ritmo di un film l’anno, così che possa trovare nuovamente la creatività che un tempo lo rendeva uno dei più originali cineasti sulla scena americana.
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