
“We live in interesting times“, questo è stato uno dei commenti del grande David Cronenberg (Crimes of the Future) durante la conferenza stampa dedicata a The Shrouds, sua ultima fatica che, nuovamente, si interroga su tematiche a lui care osservando la realtà che ci circonda. Il progresso tecnologico in relazione al corpo umano e alla psiche è, prevedibilmente, uno dei punti di partenza. Il film ha da subito suscitato un discreto clamore durante le proiezioni avvenute al Festival di Cannes; un interesse dimostrato anche e soprattutto qui da noi in Italia, dal momento che siamo stati tra i primi a lanciarlo nelle sale dopo il consueto giro di festival (anticipando persino gli americani). Nello specifico, la prima anteprima italiana si è svolta in esclusiva al Busto Arsizio Film Festival.
Nonostante il tanto parlare, la genesi di questo lungometraggio si dimostra assai più semplice: nel 2017 Cronenberg ha purtroppo perso la moglie e ha attraversato un periodo di aridità artistica, segnato da una triste solitudine e superato solo di recente. The Shrouds è quindi un tentativo di esorcizzare la sofferenza e la perdita fondendo malinconia, esperienze personali e discorsi sull’amore e sul lutto. Data la presenza di elementi di finzione, non si tratta ovviamente di un’autobiografia, ma di un racconto estremamente attuale per abbracciare quel dolore che noi, sia come persone che come società, tendiamo erroneamente a evitare.
Una delle ispirazioni per la trama nasce da una serie di articoli giornalistici che hanno stupito il nostro regista e che è possibile leggere grazie a una veloce ricerca su Google: in Cina alcune compagnie permettono di “rimpiazzare” i propri cari defunti con degli avatar generati dall’intelligenza artificiale, così da elaborare meglio il lutto. È una soluzione efficace? Dipende dalla propria sensibilità. Cronenberg non lo farebbe mai, ma ha ammesso di aver compreso perfettamente la paura di lasciar andare chi si ama.
Così come il game director Hideo Kojima, non si considera un moderno Nostradamus né un visionario, bensì un acuto osservatore della condizione umana; per lui l’arte non è profezia. Da queste idee si sviluppa la storia del film che narra di Karsh (Vincent Cassel), un ricco imprenditore illuminato. Dopo essere rimasto vedovo, inventa dei sudari tecnologicamente avanzatissimi che, attraverso modelli 3D interattivi, permettono ai vivi di osservare in tempo reale i morti decomporsi all’interno delle loro bare. La ditta fondata dal protagonista – la GraveTech – fa affari in tutto il mondo ma, nonostante l’enorme successo, la morte di Becca (Diane Kruger) a causa di un tumore continua a tormentare Karsh che non riesce a costruirsi una nuova vita sentimentale.
Tutto cambia in una notte: numerose tombe presenti nel cimitero privato dell’azienda – inclusa quella di Becca – vengono profanate e vandalizzate da ignoti. Come se non bastasse, la rete interna che collega le bare e i sudari viene criptata con un attacco hacker, rendendo impossibile “connettersi” con i defunti. Determinato a scovare i responsabili, Karsh cerca il supporto di Terry (Diane Kruger), sorella gemella di Becca che nutre da sempre un forte interesse amoroso per lui, e Maury (Guy Pearce), il tecnico informatico che ha programmato le tombe.
L’indagine si fa subito tesa e ossessiva per il magnate che contempla la possibilità di un complotto segreto ai danni della GraveTech. Il suo è un personaggio sfaccettato e paranoico che nutre un vero e proprio feticismo per la morte e che desidera superarne il limite fisico e materiale. Questo suo “voyeurismo di cadaveri” ricorda molto da vicino le vicende di The Body Snatcher di Robert Wise (un classico che consiglio caldamente di recuperare). Certe manie cospirazioniste trovano riscontro nella realtà: la maggior parte delle persone non riesce a sopportare l’idea che non ci sia una spiegazione per la morte, come se quest’ultima dovesse necessariamente avere un significato. Il dolore è così grande che non riusciamo ad accettare il destino, deve esserci per forza qualcuno da incolpare.
Il fatto che il cosiddetto “eterno riposo” possa non avere alcun senso è qualcosa di terrificante per molti, quasi più dell’aldilà stesso. Tendiamo spesso a vedere il mondo attraverso un filtro esistenzialista: se un decesso non è stato voluto da una divinità o da qualcosa di alieno, allora deve inevitabilmente essere stato causato da qualcuno. The Shrouds esamina proprio la paura dell’assenza di significato, la ricerca di una causalità a tutti i costi, la razionalizzazione compulsiva che dà l’impressione di avere un controllo sul mondo.
L’amore viscerale per il corpo e la carne accomuna tutta la filmografia di David Cronenberg, un regista che stavolta, con toni decisamente funerei e malinconici, esplora persino il campo della mediologia. Questa è lo studio sistematico dei mezzi di comunicazione di massa e dei loro effetti sull’organizzazione sociale, sulla cultura e sui comportamenti. Le vicende affrontano indirettamente il concetto di “villaggio globale” teorizzato dal sociologo Marshall McLuhan: le nuove tecnologie che hanno permesso la globalizzazione sono ormai talmente avanzate da aver facilitato e accelerato ogni tipo di collegamento – materiale e virtuale – tra esseri umani. In maniera simile a Death Stranding, il film tratta di connessioni divenute così pervasive da superare il confine della morte, in un mondo iperdigitalizzato dove i defunti si trasformano in dati sensibili da collezionare e proteggere. Non siamo al sicuro nemmeno due metri sottoterra.
E se si “sconfigge” la morte, si riesce anche ad andare oltre la religione: Karsh è ateo, come Cronenberg stesso. Non crede nell’aldilà, bensì nell’unica realtà palpabile, ovvero il corpo umano; se esso muore, muore anche la realtà. Non sorprende dunque la frase “Body is reality“, da sempre motto del regista canadese. Spinti da queste convinzioni, è stimolante chiedersi se in futuro sarà possibile dar vita a un paradiso artificiale come quello visto nel capolavoro videoludico Soma; una possibilità interessante senza dubbio, ma povera di quel contatto fisico e tangibile che solo la carne può dare. Parlare di videogiochi e di ibridazione tra media è quanto di più giusto si possa fare davanti a questo lungometraggio, dal momento che molto di quello che è stato analizzato finora è riconducibile al concetto di gamification, sviscerato in Italia da Nicolas Bilchi nel saggio Cinema e videogame. Narrazioni, estetiche, ibridazioni.
I dispositivi informatici mostrati a schermo hanno un qualcosa di organico, di vivo e avvicinano lo stile dell’opera all’estetica della Divine Machinery, inventando figure nuove per la fantascienza contemporanea: i tombaroli hi-tech. In inglese, la parola “shroud” designa il velo funerario, ma ha anche altri significati: può voler dire “coprire” o “nascondere”. La maggior parte dei rituali funebri riguarda proprio l’evitare la realtà della morte e ciò che accade a un corpo, per timore di quel dolore che tanto odiamo, come evidenzia il filosofo sudcoreano Byung-chul Han in La società senza dolore. In barba a tutto ciò, nel gioco della sceneggiatura c’è un’inversione della normale funzione di un sudario: serve a rivelare, piuttosto che a celare.
Le atmosfere asettiche che ci immergono in questo grigiore vengono costruite attraverso dialoghi asciutti, aneddoti e racconti di vita vissuta; frangenti utili a delineare anche la figura della defunta Becca, proprio come accade quando, con malinconia e nostalgia, parliamo di qualcuno che abbiamo perso. Sembra che quella persona che tanto amiamo sia ancora presente nelle nostre esistenze, nonostante la sua scomparsa.
Una terribile sensazione che – con un leggero sforzo interpretativo – può essere associata alla sindrome dell’arto fantasma o “Phantom pain”, fenomeno psichico che apre a svariate letture filosofiche, alcune di queste portate in scena dal celebre Metal Gear Solid V. Karsh non può sopportare l’idea di non sapere veramente cosa stia accadendo al corpo di sua moglie. Quella relazione continua, ma non attraverso uno scambio di parole o una conversazione. È certamente perversa, morbosa e grottesca, ma non per qualcuno che sta affrontando un lutto come il suo. Anzi, è piuttosto un modo per uscire dalla disperazione e dal dolore.
Non mancano, in questo senso, intere scene narrate con l’ausilio di videomessaggi, videochiamate o l’intervento di Hunny, l’assistente virtuale di Karsh che strizza l’occhio alla Samantha vista in Her di Spike Jonze. Modi alternativi e molto intriganti per mostrare attraverso la lente cinematografica una realtà preda del digitale. A questo proposito, i sudari che Karsh vende sono essi stessi dispositivi cinematografici, poiché creano un cinema sui generis: “un cinema post-morte, un cinema della decadenza” per usare le parole del regista. Volendo compiere un’ulteriore, stuzzicante analogia, possiamo dire che noi stessi guardiamo vecchi film per ammirare persone morte: desideriamo rivederle e ascoltarle di nuovo. La settima arte è dunque “una sorta di macchina avvolta da un sudario, una macchina che sonda la morte“. Il cinema è un cimitero.
La tecnologia che “contamina” ogni aspetto della vita, con il pericolo di invadere anche la privacy, potrebbe far pensare al recente modus operandi dello spregevole Elon Musk che, a capo del Dipartimento dell’Efficienza Governativa degli Stati Uniti d’America, controlla i flussi di informazioni di mezzo globo. Il miliardario in effetti ha qualche somiglianza con Karsh (che nel film guida una Tesla), tuttavia Cronenberg smentisce chi crede che The Shrouds voglia essere una presa in giro dello status quo americano: il protagonista non ha aspirazioni politiche e il focus della narrazione è da ricercare in una dimensione più intima e personale, lontana dagli sporchi affari di governo.
Sia come sia, la fantascienza di cui facciamo esperienza in questo lungometraggio non è più incredibile o inapplicabile come in Scanners o eXistenZ, ma verosimile e fusa alla realtà. Ciò rende questa storia un dramma contemporaneo anziché un prodotto sci-fi puro, la cui morale può essere così riassunta: per quanto la tecnica possa avanzare inesorabilmente, il fattore umano sfuggirà sempre al dominio e alle simulazioni delle IA. Nell’ottica del lutto ci sarà in eterno un non detto che dovrà rimanere tale anche dopo la morte; un mistero che l’intelligenza artificiale non può interpretare.
Si può passare una vita intera con una persona, ma alla sua dipartita rimarranno comunque delle domande senza risposta. Gli esseri umani sono universi insondabili. Se a ciò aggiungiamo quanto affermato da David Cronenberg, ovvero “body is technology, technology is body“, ci rendiamo conto di quanto la tecnologia sia intrinsecamente umana; è il nostro riflesso in quanto da noi creata. L’IA non fa eccezione: il digitale non sarà mai in grado di “farci trascendere” come sostengono alcuni fanatici, perché il digitale stesso è parte di noi, nel bene e nel male.
Siamo angeli e demoni, e allo stesso modo anche la tecnologia ha il potenziale di creare cose meravigliose e cose orribili. Per me, quindi, esaminare la condizione umana significa automaticamente esaminare la tecnologia – David Cronenberg
Un ringraziamento speciale a Europictures
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