Ultramega vol.1 – Kaijū, poteri cosmici e tanto altro

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Ultramega, giusto per essere chiari. Niente mezzi termini nel titolo della nuova pubblicazione targata SaldaPress. Ideata, scritta e disegnata da James Harren in coppia con Dave Stewart ai colori, fin dalla copertina la serie a fumetti ci tiene a mettere in chiaro alcune cose: parla di kaijū, ci sono le mazzate grosse, ti piacerà. Ciò che forse non ci si aspetta, o non ci si può aspettare viste le premesse, è che non saranno solo i devastanti scontri tra mostri a far brillare questa storia, che nasconde più di una sorpresa.

Ultramega pugno

Una piccola ma doverosa contestualizzazione: il termine kaijū è di origine giapponese (怪獣, “strana bestia”) ed è stato coniato per indicare i mostri ispirati all’era atomica, tipici della fantascienza nipponica postbellica. Tra i kaijū più noti si può sicuramente ricordare Godzilla, la cui fama è riuscita a valicare i confini del Giappone e a diffondersi in tutto il mondo. L’ultima tra le tante conferme di questa notorietà si può trovare nella pellicola Godzilla vs Kong, che ha visto scontrarsi due icone del cinema orientale e occidentale per la gioia degli appassionati di monster movies. Nel corso degli anni la parola kaijū ha iniziato a essere utilizzata anche per indicare altre tipologie di creature, come nell’americanissimo Pacific Rim, in cui i mostri che attaccano la Terra poco hanno da spartire con il concetto originale del termine.

Sfogliando il primo volume di Ultramega si nota una breve introduzione redatta da Harren, in cui lo sceneggiatore si scusa per aver voluto scrivere di kaijū pur non essendo un massimo esperto in materia. Sarà anche vero, ma sin dalle prime pagine del fumetto traspare una sincera passione per queste creature, di cui vengono rispettati alcuni dei tratti archetipali a cui si accennava prima. In particolare, assume grande rilievo il concetto di mutazione indotta da un agente esterno. I primi kaijū erano infatti figli di trasformazioni genetiche violente indotte dalle radiazioni. Qualcosa di simile si ritrova anche in Ultramega, in cui il patogeno che genera i mostri agisce “dall’interno”, sconvolgendo il DNA di un essere vivente e trasformandolo in tutt’altro.

Ultramega mutazione

Non si tratta però di radiazioni, bensì di un virus di origine aliena che infetta le persone e le tramuta in orripilanti abomini assetati di sangue. La potenza distruttiva di questi orrori è enorme, ma la Terra e i suoi abitanti possono contare sugli Ultramega (da cui il titolo), esseri umani ai quali un’entità cosmica ha donato il potere di trasformarsi in giganti, dotati di forza straordinaria e della capacità di sparare raggi energetici. Questi eroi tuttavia non sono mai bastati a formare una solida e inattaccabile linea di difesa contro i kaijū.

Anche gli Ultramega sanguinano, anche loro possono essere uccisi, senza contare gli enormi danni collaterali che generano durante le battaglie. L’umanità sembra però essere giunta a un punto di svolta: una nuova linea di colossali robot da difesa è quasi pronta a mettere la parola “fine” alla minaccia dei kaijū. Tutto sembra procedere per il meglio, ma qualcosa di orribile e mai visto cova in silenzio il proprio odio, pronto a scatenare una furia che cambierà per sempre le sorti del mondo.

Muovendo da una premessa del genere, il rischio di far precipitare la storia nel già visto o nell’abisso del “brodo allungato” – la buona idea che si esaurisce senza un degno seguito – è proprio dietro l’angolo. La base narrativa non spicca per originalità o complessità, e i momenti emozionanti generati da uno scontro tra titani sono sì esaltanti, ma non bastano a sorreggere l’intera impalcatura di una storia di ampio respiro. Harren intravede molto bene questo problema e lo evita accuratamente con una precisa (e felice) scelta: inserire i momenti più spettacolari nel primo dei due episodi che compongono il volume. In questo modo lo sceneggiatore raggiunge tre obiettivi in un colpo solo: evitare il rischio della cosiddetta decompressione narrativa – la tendenza a “non far succedere niente” nei primi albi dei fumetti americani, di cui ha parlato anche Fumettologica –, catturare da subito l’interesse con un episodio pilota lanciato ai duecento all’ora, e contemporaneamente preparare il terreno per uno sviluppo di più ampio respiro dell’intreccio.

Ultramega gigante

Del secondo episodio è meglio non rivelare troppo: basti sapere che i due momenti della storia sono intimamente legati e che gli accadimenti di uno avranno profonde conseguenze sull’altro. Poiché si è parlato di diverso ritmo del secondo arco narrativo, bisogna specificare che questo non vuol dire che la trama si sgonfi o che perda mordente. La storia rimane ben lontana dalla monotonia, diventando addirittura più intrigante grazie alle notevoli possibilità narrative che si aprono alla fine del primo episodio. Si percepisce nettamente il cambio di passo, ma semplicemente ci si ritrova in un racconto meno forsennato, che non rinuncia a momenti esaltanti anche se non li eleva a cuore pulsante dell’intera vicenda.

Una corposa nota di merito va quindi alla solidissima sceneggiatura di Harren, che riesce a rendere duttile il ritmo della narrazione e a modellarlo con l’abilità e la mano ferma di uno scultore. Se serve velocità la storia inizia a correre, se invece serve un’atmosfera tesa allora il passo rallenta e l’ansia inizia a farsi tangibile. La stessa sicura scansione si ritrova anche nella gestione dei personaggi, che vengono fatti conoscere un po’ alla volta senza spiattellare subito le loro storie e azioni pregresse. A questo pregio si affianca però un difetto, evidente soprattutto nel primo episodio: i personaggi lì appaiono ridotti a meri portatori di uno specifico carattere, decisamente funzionali per lo sviluppo della vicenda, ma compressi in una sostanziale bidimensionalità.

Molto interessante è invece l’uso dello spazio all’interno della tavola. Ordinata, senza sbavature e poco incline a virtuosismi, la disposizione delle vignette puntella e sorregge ogni momento del racconto, anche quelli dal taglio più orrorifico. Quest’ultimo aspetto non va sottovalutato, vista la massiccia dose di body horror che in Ultramega si fonde perfettamente alla tematica virus-kaijū in una singolare sinergia. Il successo di questa ibridazione deve moltissimo anche all’apparato grafico, che mostra i muscoli già nel design dei kaijū e degli umani infettati dal morbo. Le creature nate dalla matita dello stesso Harren riescono infatti a suscitare un sincero senso di repulsione. A ciò bisogna poi aggiungere l’eccellente lavoro svolto con l’inchiostrazione, che alterna chine pesantissime a ombreggiature tratteggiate, spaziando tra scene ipercinetiche e frangenti autenticamente inquietanti. Impossibile poi tralasciare i colori di Stewart, che suggellano perfettamente l’impianto visivo di Ultramega.

ultramega mostro

La palette di colori adottata non si discosta mai dalle tinte cupe, miscelandosi perfettamente al senso di devastazione che aleggia in tutto il fumetto. Queste atmosfere post-apocalittiche devono molto anche all’uso “sporco” dei colori stessi, che vengono costantemente inquinati da chiazze di altre tinte. In alcune tavole la stessa inchiostrazione arriva a macchiare il disegno, riproducendo un effetto molto simile a quello che si ottiene con la tecnica del dripping.

Arrivati a questo punto aggiungere altri dettagli sarebbe uno sforzo inutile. Ultramega non solo funziona ma funziona molto bene. Sa parlare ai fan dei kaijū e a chi non li conosce, mettendo sul piatto combattimenti esaltanti, disegni mozzafiato e una storia intrigante e ben congegnata. Serve altro?

Un ringraziamento speciale a SaldaPress

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Lettore, videogiocatore, finto cinefilo e grande chiacchierone.

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