Red Notice, pattume da milioni di dollari

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Voto:

No. Semplicemente no. Potrei chiudere la recensione con queste tre parole per evitare di inacidirmi il fegato parlando dell’infima qualità di Red Notice, nuovo action comedy dal valore di 200 milioni di dollari – il budget più alto ad oggi registrato dalla distribuzione Netflix – firmato da Rawson Marshall Thurber, regista del blockbuster-immondizia Skyscraper.

Il lungometraggio, mentre scrivo, è nella Top 10 dei titoli più popolari sulla piattaforma streaming, l’ennesima prova che a buona parte del pubblico piace l’intrattenimento facilone. Il successo però non stupisce anche per via della presenza nel cast di tre delle star più in voga al momento: Dwayne Johnson (Jungle Cruise), Ryan Reynolds (Deadpool6 Underground) e Gal Gadot (Wonder Woman 1984); quest’ultima è stata pagata la bellezza di 20 milioni di dollari, rendendola la terza attrice più retribuita del 2020 secondo Forbes.

Tutti questi elementi non hanno fatto altro che attirare il mio sviluppato fiuto per la monnezza cinematografica. Direi che ogni tanto c’è bisogno di analizzare qualcosa di tremendo, giusto? Perché non dare fuoco alle polveri, quindi, con una delle peggiori pellicole di quest’anno? Ma andiamo con ordine.

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La trama è semplicissima e ricalca un qualsiasi, banale heist movie: John Hartley (Dwayne Johnson) è un agente dell’FBI appartenente all’unità di analisi comportamentale, oltre ad essere un consulente profiler specializzato in furti d’arte. Accompagnato dall’ispettrice Das (Ritu Arya) dell’Interpol tenta di acciuffare Nolan Booth (Ryan Reynolds), un super ricercato solitario che ruba le più famose opere artistiche per il piacere del brivido. I bersagli di quest’ultimo sono tre preziosissime e leggendarie uova d’oro appartenute a Cleopatra: il primo uovo è esposto al Museo Nazionale di Castel Sant’Angelo a Roma – luogo in cui avviene l’inseguimento che apre le vicende narrate – il secondo è a Valencia, nelle mani del temibile trafficante di armi Sotto Voce (Chris Diamantopoulos), la posizione del terzo è, invece, un mistero.

Le vicende si complicano quando nella competizione dei due protagonisti si inserisce un secondo ladro, ovvero Sarah Black (Gal Gadot), conosciuta con il nome in codice di Alfiere. La donna raggira entrambi i rivali e, soprattutto, incastra Hartley per un delitto non commesso. Così quest’ultimo e Booth – rinchiusi insieme in una prigione russa di massima sicurezza – si alleano temporaneamente per vendicarsi, risanare la reputazione del poliziotto e trovare il terzo uovo, in una caccia al tesoro in giro per il mondo (un enorme MacGuffin).

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Il primo uovo di Cleopatra esposto a Roma.

Red Notice parte male: nel primo inseguimento sopracitato, benché ci siano qui e là dei movimenti di macchina vagamente interessanti, le riprese e – in particolare – il montaggio di Michael L. Sale e Julian Clarke (Elysium, Terminator: Destino Oscuro) risultano troppo veloci. L’eccessiva rapidità della messa in scena sminuisce il senso e la spettacolarità di certe sequenze action. Il film è evidentemente figlio dell’epoca odierna, in cui l’azione frenetica e le decine di informazioni a schermo sono più importanti della chiarezza generale e di una messa in quadro pulita. Questa tendenza alla Michael Bay si ripercuote sulle scene più concitate: queste sono piene di tagli o inquadrature superflue che frammentano eccessivamente gli scontri, siano essi delle scazzottate o delle sparatorie. La regia è spezzettata e confusionaria e fa perdere tutto il gusto della violenza. Come se non bastasse, le immancabili esplosioni e i restanti effetti visivi sono così finti che più finti non si può.

Ad aggravare questo caotico mix testosteronico è il comparto fotografico di Markus Förderer (Independence Day – Rigenerazione): le immagini sono patinate, saturate e – nei frangenti più gravi – persino sovraesposte; non siamo lontani quindi dai peggiori blockbuster Marvel-Disney. L’orrore visivo viene coronato da un’illuminazione sparata – qualcuno direbbe smarmellata – e dai classici lens flare alla J. J. Abrams. L’esito finale non è dissimile da una pessima pubblicità di profumi.

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Passiamo al nostro trio delle meraviglie. The Rock è l’unico tagliato per la parte, dal momento che il suo personaggio è un super agente grande e grosso, imperturbabile e atletico; ha la faccia e l’atteggiamento giusti, insomma fa il suo onesto lavoro. A ciò aggiungo – per sincerità – il mio guilty pleasure nei suoi confronti: non riesco a biasimarlo perché, nonostante non abbia mai dato prova di essere una star di valore in nessun lungometraggio che fosse un minimo decente, gode comunque di una presenza scenica intrigante. Sa stare davanti alla macchina da presa, una capacità in parte donatagli dalla sua esperienza nella WWE; la speranza è quella che un giorno possa sbocciare come il collega Dave Bautista.

A Ryan Reynolds è affidato il ruolo di comic relief, ma la sua recitazione è talmente sopra le righe da diventare in poco tempo insopportabile, oltre che monotona; colpa di battute fuori luogo e al limite dell’infantile. Si cerca poi di inspessire la sua figura di ladro con un background familiare più serioso che, però, alla fine della fiera è trito e ritrito. Ciò che danneggia irreparabilmente Nolan Booth è stata la volontà di premere smodatamente sul suo lato comico, quello che i fan di Reynolds e i follower sui social hanno potuto apprezzare in prodotti come Deadpool 2Free Guy. In ultima analisi, Reynolds in Red Notice è un dannato impiastro, per usare un elegante eufemismo.

E Gal Gadot? L’attrice porta con sé la sua bellezza e poco più. Tutto sommato si rivela insostenibile anche lei (non che opere come Batman v Superman o Zack Synder’s Justice League mi avessero fatto dubitare o ricredere).

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La maggior parte delle freddure di Booth fanno saltare i nervi, siete stati avvisati.

A mettere l’ultimo, pesante chiodo sulla bara è una narrazione prevedibile, non esente da buchi di sceneggiatura e incongruenze di scrittura che fanno solo arrabbiare (soprattutto nel finale). Lo script è volutamente esagerato e dà vita ad una brutta parodia o a un surrogato di Mission Impossible. Ciò lo conferma la colonna sonora firmata da Steve Jablonsky, compositore noto ai più per aver curato le musiche della saga cinematografica di Transformers e di film-pattumiera come il già citato Skyscraper Tartarughe Ninja 2: Fuori dall’ombra. Il suo lavoro qui è pomposo e scontato; ricalca pedissequamente, senza innovare, i canoni classici del genere spionistico.

Red Notice è l’ennesimo, dozzinale buddy movie che nel suo pre-finale cerca futilmente di aggiungere carne al fuoco rivelando la backstory di John Hartley. Una trovata che vorrebbe nobilitare la sceneggiatura e avvicinare i due nemici/amici protagonisti, ma che risulta – ancora una volta – scadente. A poco serve l’ultimo colpo di scena che – a differenza degli altri davvero telefonatissimi – riesce ad essere un minimo sorprendente: la creazione di Rawson Thurber è una nave in fiamme di quasi 2 ore; una durata, oltretutto, eccessiva per una storia che poteva essere snellita su più fronti.

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Una delle ambientazioni principali cita Eyes Wide Shut di Kubrick. Non sapete che dolore mi provoca citare quel capolavoro in questa recensione.

Che dire di più per demolire questo disastro? Nonostante la mia passione per Dwayne Johnson rimanga salda al suo posto, non posso negare che l’ipotesi di ben due sequel mi faccia gelare il sangue nelle vene. Per ora nulla di confermato né dalla Seven Bucks Productions, né dagli autori o da Netflix stessa: l’interesse c’è, ma sarà il successo monetario della pellicola a decretare la nascita di un seguito.

Detto ciò, fatevi un favore: evitate questo film come la peste nera e se proprio cercate un lungometraggio simile, ma qualitativamente superiore, vi consiglio spassionatamente RED di Robert Schwentke. Troverete tanto divertimento, un cast d’eccezione e una buona regia. Tre cose che Red Notice non ha.




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Videogiocatore incallito, cinefilo dalla nascita, attore di teatro e batterista da diversi anni. Adoro approfondire qualsiasi cosa abbia a che fare con l'arte e l'audiovisivo: è difficile fermarmi quando inizio a scrivere o a parlare focosamente di ciò che amo.

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