Cani Smarriti (Lost Dogs), l’esordio di Jeff Lemire

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Autoproduzione è una parola nota agli appassionati di fumetti. Non c’è fiera, grande o piccola che sia, in cui manchi la zona dedicata ai fumetti “indipendenti”, i cui autori hanno scelto di editare e stampare da sé i volumi.

Tra i banchi di queste aree, in cui si respira creatività senza vincoli, non è insolito scoprire piccole perle come, ad esempio, l’ottimo Ave – Nice to meet you. Facendo un piccolo salto indietro nel tempo, al MoCCA Art Festival del 2006 troviamo, seduto in uno di questi stand, un giovane Jeff Lemire. Oggi acclamato fumettista e autore di opere come Essex County, Royal City, Il Saldatore Subacqueo, in quell’anno presentava il suo albo d’esordio: Lost Dogs.

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In Cani Smarriti (questo il titolo scelto in traduzione da Panini Comics) incontriamo un uomo, molto alto e molto muscoloso, con il volto abbastanza sgraziato, quasi deforme. È un contadino e un padre, ha una piccola casa in cima alla collina su cui lavora, vive con la moglie, la figlia e un cane. Sebbene la stazza e l’aspetto possano incutere timore, l’uomo ha un cuore gentile e un animo empatico, oltre che un amore sconfinato per la propria famiglia.

La bimba è molto allegra, i suoi genitori le hanno promesso che il giorno seguente la porteranno in città a vedere le barche. Nessuno immagina che durante quel viaggio qualcosa andrà male, irrimediabilmente male, facendo precipitare l’omone e la sua famiglia in una spirale di violenze efferate che sconvolgeranno la vita del protagonista.

Conoscerà il dolore profondo e la disperazione, il desiderio di salvare il poco che resta da salvare e il senso di abbandono in una città fredda e indifferente, in cui la sua stessa dignità umana verrà messa in ridicolo e calpestata

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Quella che, ad un primo sguardo, potrebbe sembrare la trama di una storia improntata solo alla compassione verso il protagonista, in realtà si scopre essere un racconto dal respiro decisamente più ampio: le crudeltà inflitte al protagonista non si limitano a essere carburante narrativo con cui alimentare il suo progressivo disfacimento fisico e spirituale perché è l’omone in primis a non voler diventare parte di quel mondo orrido che ha mandato in frantumi la sua famiglia.

Ad ogni provocazione tenta di non dare seguito, ogni scazzottata lo vede inizialmente restio a combattere. In questo desiderio di pace, su uno sfondo di cinismo efferato, Lemire riesce a tratteggiare con profonda sensibilità la fragile condizione del personaggio, pacifico d’indole ma, a volte, forzato a prendere decisioni e compiere azioni che mai avrebbe desiderato fare.

L’eroe che Lemire racconta, è bene specificarlo, non brilla per candore assoluto: sanguina, si arrabbia, fa sanguinare ma a differenza di tutti gli altri personaggi non trae sadica gioia da questi avvenimenti, trasformandoli in mezzi necessari per proseguire nella ricerca dei cocci di quella che era stata la sua vita.

Non è un caso che il tratto sia decisamente sporco, tagliente e frastagliato come la storia che dipinge, in cui il bianco delle tavole sembra fatichi ad emergere e debba farsi strada fra i neri pesanti e pieni. L’inchiostrazione di Lemire non si limita a scorrere sulla pagina, la impregna, sottolineando con viva forza le sezioni più crude della storia. Tuttavia, così come le torture ai danni dell’uomo non ne spezzano l’animo, ugualmente accade al disegno, in cui l’inchiostro non riesce a sommergere del tutto la luce candida del bianco e i toni del rosso, adatti tanto alla speranza quanto al sangue.

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In questa dualità si concentra un grande pregio di Lost Dogs: Lemire riesce a mantenere presenti e pulsanti entrambi i volti della storia, evitando che una delle due metà inglobi l’altra. La ferocia non riesce a vincere sull’animo del protagonista, che tuttavia si trova ad affrontare una realtà nella quale è difficile mantenersi fedeli a sé stessi.

Una buona immagine per descrivere ciò può essere quella dei fiumi carsici: sotto ad uno strato roccioso e arido Lemire nasconde un tesoro di bontà e amore che non rinuncia alla propria libertà.

L’unica piccola crepa in questo ottimo equilibrio, volendo essere puntigliosi, è il gioco di specchi non troppo originale che traspare in alcune tavole, in cui il protagonista, etichettato come “mostro” dai più, appare ben più umano della mostruosa folla che si accanisce su di lui.

Una piccola svista decisamente perdonabile, soprattutto se si considera che Lost Dogs è un’opera prima e che Lemire non incentra su questi temi il proprio racconto, facendolo anzi virare verso i toni dell’epopea interiore e personale.

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Calzante anche la scelta di utilizzare vignette via via sempre più piccole e numerose all’interno di una singola tavola, man mano che la narrazione raggiunge i propri apici di intensità, al cui fascino ricco di pathos concorre anche la decisione di inserire, in queste vignette, rapidissimi controcampi, cambi di inquadrature e di soggetti raffigurati, rendendo in modo vivido il senso di spaesamento percepito dal protagonista in quei momenti.

A questi segmenti particolarmente concitati fanno da contrappeso pagine in cui le vignette si allargano, ospitando scene particolarmente emotive, in cui il gioco di colori e l’abilità narrativa di Lemire possono dispiegarsi agevolmente e reclamare tutto lo spazio che ad esse si conviene.

Di fronte ad un albo di così pregevole fattura uno dei grandi rischi è che il finale non sappia tenere testa a quanto viene raccontato. Fortunatamente, in Cani Smarriti (Lost Dogs) ciò non avviene.

Lemire sceglie di dare una solida chiusura alla storia, senza tradire la linea duale fino a quel punto tracciata. La narrazione trova un proprio epilogo, compiuto ma non univoco. Chi legge si trova, un’ultima volta, a confrontarsi con un bivio, a scegliere quale lettura trarre dalle vicende narrate e dal modo in cui esse si concludono.

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Lettore, videogiocatore, finto cinefilo e grande chiacchierone.

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