Dylan Dog 353 – Il Generale Inquisitore

Il parere di Nessuno

La nostra testata preferita saluta l’investitura di Michele Masiero, che noi dylaniati conosciamo bene, a direttore editoriale Bonelli con un nome di quelli di peso, quello di Fabrizio Accatino, uno che per Dylan ha scritto poche volte ma che ha sempre lasciato il segno.
Nel momento in cui scrivo registro sul web un significativo indice di gradimento positivo per questa storia, “Il generale inquisitore”, affidata ai pennelli di Luca Casalanguida, esordiente sulle pagine di Dylan Dog.dyd353rece
Andiamo con ordine e partiamo dall’idea. Accatino decide di prendere spunto da una storia reale, quella del regista britannico Michael Reeves, morto giovanissimo a soli 25 anni ma passato alla storia del cinema horror grazie ad alcuni gioielli fra cui spicca su tutti “Il grande inquisitore”, film del 1968 con Vincent Price, Ian Ogilvy e Rupert Davies. In esso si narra di un simpaticone che nell’ Inghilterra del ‘600 si autoproclama inquisitore e gira di contrada in contrada offrendo i suoi servizi, ovvero giustiziando col fuoco fanciulle in odore di stregoneria. Poco dopo l’uscita di questa pellicola, l’astro nascente Michael Reeves inizia a lavorare a un adattamento del racconto di Poe “La cassa oblunga” ma, probabilmente anche a causa delle difficoltà legate alla produzione, entra in un periodo di crisi personale che sfocia nella depressione e proprio nel bel mezzo dell’ascesa professionale viene trovato morto a causa di un’overdose di barbiturici. La morte di Reeves è stata nel tempo oggetto dell’ attenzione di molti curiosi che hanno cercato di fare luce sui suoi aspetti misteriosi; Accatino con questo albo prende spunto da tutto ciò e ci fornisce la sua personale interpretazione della vicenda.
La storia inizia spiazzando il lettore con una sequenza dai toni quasi da commedia, ma improvvisamente ci ritroviamo nel Medioevo e vediamo una presunta strega che viene giustiziata. Questa scena non è altro che una scena de “Il grande inquisitore” di Reeves e chi sta vedendo il film in una sala cinematografica è un Dylan estasiato; meno entusiasta della visione è però la sua fidanzata che, indignata, lo molla in una gustosissima sequenza dove ritroviamo un old boy scanzonato e ironico che sembra prenderla con filosofia. In questa introduzione troviamo tutti gli elementi positivi che caratterizzano la scrittura di Accatino: la ricercatezza, l’uso intrigante del metalinguaggio cine-fumettistico e la brillante caratterizzazione del suo Dylan sarcastico e un po’ scanzonato come sempre più di rado ci è dato vedere.
Ma continuiamo appena a sfogliare ed ecco che troviamo subito anche gli elementi negativi di questo albo. La trama inizia infatti a svilupparsi con una casualità a dir poco improbabile: fuori dal cinema, subito dopo il litigio, a Dylan si presenta niente poco di meno che Ian Ogilvy, star de “Il grande inquisitore”, che (casualità) quasi cinquant’anni dopo aver girato il film decide di andarlo a rivedere in un cinema della periferia londinese e (casualità) incontra Dylan Dog al quale non riesce a trattenersi dal parlare di certi suoi sospetti relativi alla morte di Michael Reeves avvenuta nel ’69. Uhm… Ad ogni modo, salta fuori dalla sua testimonianza che Reeves fece la conoscenza di un misterioso individuo, tale James Trevanian, che gli offrì 100.000 sterline per finanziare “Il grande inquisitore” a una condizione irrevocabile: che non venisse modificato il finale da lui voluto. Da quel momento in Reeves inizia quella metamorfosi che lo porta dall’essere un ragazzo pieno di entusiasmo e volontà di realizzare i suoi progetti al suicidarsi. Il racconto di Ogilvy spinge Dylan a recarsi nella villa dove decenni prima Trevanian aveva ricevuto Reeves per la firma del contratto, ma diciamo che lì ora ci abita qualcuno che non prende proprio bene la sua visita (e che ha un assistente che è il sosia di Ron Jeremy).
Non amando parlare troppo delle trame qui mi fermo: quel che mi premeva era dare un’idea delle virtù e dei difetti di quest’albo che a mio avviso sono ben esemplificati nella prima parte di cui ho parlato. Direi che Accatino ha trovato un buono spunto (la controversa fine di Michael Reeves), lo ha fissato in un soggetto confuso (oserei dire, a tratti, sconclusionato) e lo ha sceneggiato magnificamente. Un albo di luci (la tecnica narrativa di Accatino che formalmente non sbaglia un colpo) e ombre (la pochezza di una trama che va avanti senza solidità logica) che alla fine risulta fondare il suo messaggio ultimo nella metafora (a dire la verità telefonatissima) dell’inquisizione vista come immagine della censura che ci rimanda al celebre “Caccia alle streghe” di Sclavi.
Accatino sembra voler giocare col lettore, con le sue aspettative e coi clichè: ad esempio, la scena dell’inseguimento finale con l’inquisitore in fiamme sembra fatta apposta per far dire al lettore “Ma com’è possibile, perché non muore?”, l’autore sembra usarla deliberatamente per mettere alla berlina la spasmodica necessità di spiegazioni del lettore, spiegazioni che invece non arrivano e al loro posto troviamo una serie di battute ironiche spassose sparate da Dylan; certo, questa in particolare è una scena di puro divertimento, ma alla fine ciò che prevale in generale è proprio la perplessità a fronte della forzatura logica a cui si assiste in più casi, a partire dai citati escamotage che all’inizio fanno scattare gli eventi.
A questo giro personalmente dò al pur talentuosissimo Accatino una sufficienza risicata. In verità leggo in giro che questo numero 353 è piaciuto molto, e non stento a capirne i motivi: coinvolgenti atmosfere horror con una sana venatura trash, raffinatezze e tempi narrativi impeccabili, personaggi splendidamente gestiti (ci sono due-tre sequenze grouchesche straordinarie, in particolare quella in cui il baffone fa un monologo interiore sul sesso mentre si corica a letto), gli ottimi disegni dell’esordiente Casalanguida che rende il racconto dinamico passando dal bianco e nero alle mezze tinte dei flashback e dalle illustrazioni seicentesche all’effetto “vecchia pellicola”… ma quello che più mi resta sono un soggetto confuso e una vacillante logica narrativa.

Nessuno

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