
Se c’è un attore che più di ogni altro ha segnato il cinema degli ultimi trent’anni, quello è sicuramente Daniel Day-Lewis. Poliedrico, devoto al metodo, riservato e da quasi otto anni ormai ritiratosi dalle scene dopo Il Filo Nascosto di Paul Thomas Anderson. A spingerlo a tornare sulle scene è servito un progetto co-sceneggiato insieme al figlio Ronan Day-Lewis, già impegnato nell’arte pittorica, qui al suo debutto come regista di un lungometraggio. Visto il suo background, in questo esordio ha curato anche tutte le grafiche e i disegni disturbanti che scorrono durante i titoli di testa, realizzati come quelli di un bambino, che ben illustrano una delle tematiche del film: le atrocità dei conflitti in Irlanda per l’indipendenza dal dominio britannico.
Questa tematica però funge solo da contesto sociale e culturale per una storia prettamente personale: Jem Stoker (Sean Bean) vive insieme a Nessa (Samantha Morton) e Brian (Samuel Bottomley), quelli che sembrano apparentemente sua moglie e suo figlio poco più che ventenne. In realtà Jem è lo zio di Brian, rimasto a fargli da padre dopo che il fratello Ray (Daniel Day-Lewis) si è ritirato a vivere sperduto nei boschi, senza lasciare tracce. Brian vive molto male quest’assenza del vero padre, diventando ogni giorno più irrequieto e violento, tanto da arrivare quasi a uccidere un suo compagno di classe in una rissa. Dopo quest’evento, Jem decide di andare a cercare Ray per convincerlo a tornare, anche solo per parlare con il figlio, così da non lasciarlo più in balia di un’assenza soffocante.
La pellicola gioca molto sull’aspettativa di rivedere dopo così tanto tempo l’attore tre volte premio Oscar, tanto che la messa in scena lo tiene in penombra o di spalle per i primi venti minuti, e non gli fa spiccicare parola nei primi trenta. Il film ricerca un apparente minimalismo ma risulta completamente sbilanciato: tutti i primi quarantacinque minuti di film sembrano una fin troppo estesa introduzione che però non illustra allo spettatore quale sia l’orizzonte del film, facendo molto presto perdere presa, in quanto tutto quello che viene mostrato sembra privo di scopo ma soprattutto confusionario. Quando invece le informazioni iniziano a fuoriuscire e si capiscono finalmente i rapporti tra i personaggi, tutto esonda in dei lunghissimi monologhi di Ray che sono chiaramente frutto della penna di Daniel Day-Lewis, inseriti solamente come ennesimo show-off della propria bravura.
Tutte le buone intenzioni di un’idea anche interessante su un rapporto genitoriale complesso, sui crimini dell’Inghilterra e dell’Irlanda (Daniel Day-Lewis è mezzo inglese, mezzo irlandese), vengono purtroppo mal veicolate da una regia acerba, troppo incentrata sulla valorizzazione del padre (Sean Bean sprecatissimo) e sulla citazione di alcuni capisaldi in cui lo stesso padre ha recitato, specialmente Magnolia e Il Petroliere, che vengono saccheggiati quasi al limite del plagio. La grandine della svolta finale, ad esempio, è una funzione narrativa e visiva praticamente identica alla pioggia di rane di Magnolia. Ciò che inficia l’opera più di tutto però è la sua estrema ripetitività, per qualcosa che sarebbe potuto benissimo durare almeno quaranta minuti in meno se si fosse avuto un qualsiasi senso del ritmo.
Questo perché la dilatazione delle inquadrature e delle intere sequenze si percepisce come fine a sé stessa, tanto che molto spesso tornano sullo schermo immagini pressoché identiche che non solo non muovono la narrazione (in un film del genere non sarebbe un problema), ma neanche spostano il punto di vista né danno quella prospettiva descrittiva inedita che dovrebbe tenere lo spettatore incollato in “contemplazione”. Più e più volte tornano la cameretta del figlio Brian in posizione da Shinji di Evngelion, i boschi senza che abbiano nulla in più da raccontare, il lavoro logorante della madre che esiste anch’esso solamente come show-off di Samantha Morton. In tutto questo quando si arriva al monologo di risoluzione, per quanto bello ed emozionante, diviene l’ennesimo in cui il personaggio di Sean Bean rimane a guardare senza spiccicare parola per più di dieci minuti, l’ennesimo in un film fatto di monologhi, l’ennesimo di un’opera che ha perso ormai ogni mordente, anche quello della colonna sonora di Bobby Krlic (Midsommar) limitata a un solenne tappeto noise-shoegaze che viene a noia dopo la prima mezz’ora.
Per non farsi mancare nulla, insieme alla sopracitata pioggia di grandine/rane abbiamo anche una scena totalmente concettuale e onirica che spezza completamente l’atmosfera del film, in cui appare anche una creatura mistica già presente nelle opere pittoriche di Ronan Day-Lewis, ma completamente fuori contesto in una storia come questa. Da quel momento in poi, il minimalismo viene rotto nuovamente in un tripudio di inquadrature metaforiche da far quasi venire la nausea per arrivare a un finale, anch’esso, emotivo ma troppo poco emozionante per lo spettatore, ormai anestetizzato dalla visione eccessiva in tutte le sue parti.
Anemone rimane purtroppo un’occasione mancata, perché nel soggetto il film poteva essere veramente interessante e inoltre può contare in un reparto tecnico davvero notevole per un esordio (facendo comunque le dovute considerazioni nepotistiche). Aspettiamo dunque Ronan alla prossima opera, magari più libero dalle aspettative dell’esordio e dall’ombra del ritorno del padre, per poter finalmente comprendere se tutte queste storture siano farina del suo sacco o frutto di fin troppi compromessi imposti dal peso del proprio cognome.







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