Rental Family – Cercasi emozioni in affitto

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Se poteste rimpiazzare un membro della vostra famiglia con una controfigura a noleggio, chi scegliereste? Una domanda del genere risulta davvero assurda per noi occidentali, mentre per i giapponesi “affittare” un parente per ogni evenienza è perfettamente normale. Il nuovo fidanzato vuole conoscere tua madre e tu temi il suo giudizio? Sei stanco di andare al cinema da solo? Devi partecipare a un matrimonio ma ti vergogni di essere single? Vuoti emozionali, situazioni sociali scomode, la timidezza che ci pietrifica: la pratica di ingaggiare degli attori allo scopo di superare questi problemi è ben documentata in Giappone sin dagli anni Ottanta, e oggi esistono circa trecento compagnie che offrono surrogati per impersonare familiari, amici, spose e sposi o altri ruoli in cambio di denaro.

Hikari aka Mitsuyo Miyazaki (Lo scontroTokyo Vice37 Seconds), regista di Osaka, ha iniziato a studiare questa florida industria nel 2018 e dopo anni di indagini è giunta alla conclusione che ogni cliente che si affidava e si affida al servizio “rent-a-family” ha un gran bisogno di contatto umano, specialmente nelle metropoli come Tokyo o nei paesini di campagna dove è molto facile sentirsi isolati. A un occhio estraneo al Sol Levante, tutto ciò può sembrare troppo artificiale e artificioso, ma le emozioni alla base di queste “prestazioni speciali” sono totalmente autentiche.

Rental Family – ben accolto alla 20ª edizione della Festa del Cinema di Roma – è il risultato della sopracitata ricerca, un film che si sviluppa attorno a un concetto semplice: lo spasmodico desiderio di connessioni reali, assai ricorrente in gran parte dei prodotti audiovisivi dell’ultimo decennio (asiatici e non solo). Un tema che Hikari utilizza anche per sensibilizzare il pubblico sul business inusuale che è il rent-a-family.

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Il Giappone, dunque, può essere un paese davvero bizzarro per uno straniero, soprattutto se parliamo di Phillip Vandarpleog (uno splendido Brendan Fraser), attore americano di mezza età che vive a Tokyo da otto anni, nella solitudine nel suo piccolo appartamento dal quale osserva nostalgico le vite apparentemente gioiose dei vicini di casa. L’uomo gode di una certa fama per aver recitato come mascotte in un famosissimo spot di dentifrici, ma nonostante ciò fa fatica a trovare la sua vera vocazione. Come una pallina in un flipper, salta da un’audizione all’altra nella speranza di dare una svolta decisiva alla sua carriera, mentre la sua agente ne approfitta per mandarlo in giro a fare da comparsa in eventi pubblici e privati come matrimoni e funerali.

È proprio a un finto rito funebre – sì esistono anche queste cose – che Vandarpleog entra in contatto con Shinji Tada (Takehiro Hira), il capo di Rental Family Inc., un’agenzia che procura attori e figuranti per impersonare parenti e conoscenti che non esistono. Il nostro gaijin – ovvero “immigrato” con accezione spesso dispregiativa – vorrebbe genuinamente adattarsi alla città che lo ha accolto e accettare l’ingaggio, ma il suo carattere puro e innocente gli fa dubitare della moralità di questo strano lavoro. Una confusione opprimente che la regista stessa ha sperimentato sulla sua pelle dopo il suo trasferimento da Osaka allo Utah, a soli diciassette anni; un’esperienza intima sulla quale vuole far riflettere gli spettatori e che allontana il lungometraggio dall’essere una sequela di sterili stereotipi sul Giappone.

Shinji e la sua collega Aiko (Mari Yamamoto) non si scoraggiano di fronte a tale spaesamento e mettono alla prova il povero protagonista: sotto pseudonimo, deve partecipare a un matrimonio come sposo fasullo per aiutare una giovane ragazza ad accontentare la sua famiglia e a distanziarsene. A seguito di una rocambolesca cerimonia, Phillip si rende conto di poter effettivamente fare del bene per il prossimo e diventa un membro a tempo pieno della Rental Family. Inizia così a “riempire i vuoti” nelle vite delle persone assumendo di volta in volta i ruoli più disparati: un compagno di giochi per un hikikomori, “un americano triste” all’ennesimo funerale-farsa, un fan entusiasta di una coppia di cantanti emergenti e così via. Siparietti comici che, nella loro tenerezza mista a una sana dose di stramberia, riempiono il lungometraggio di allegria.

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Tra le decine di ingaggi, sono due i legami cruciali che cambiano per sempre la vita dell’attore statunitense: quello con un anziano divo del cinema ormai lontano dalla luce dei riflettori, tale Kikuo Hasegawa (un incredibile Akira Emoto) e il rapporto che intreccia con Mia Kawasaki (Shannon Mahina Gorman), una bambina nippo-americana di undici anni alla quale è sempre mancato un padre. Come una prostituta lenisce le mancanze fisiche dei propri clienti, così Phillip lavora sulle emozioni di chi chiede il suo aiuto. Il lavoro lo coinvolge al cento per cento e non si può quindi parlare di un semplice bugiardo che inganna il prossimo inventandosi un ruolo di volta in volta, bensì di una persona che, come tutti i suoi coetanei, è alla ricerca di una sua comunità in cui vivere.

Nel primo caso, il nostro protagonista veste i panni di uno scrittore desideroso di pubblicare una fedele biografia del signor Hasegawa. Ciò che non sa, però, è che il vecchio artista soffre di Alzheimer e si aggrappa con tutto sé stesso al suo passato per non dimenticarlo prima di morire. Un arco narrativo struggente in cui non mancano esilaranti avventure a cui Phillip è costretto, incredulo e complice, a partecipare in qualità di badante (sfidando i limiti delle sue responsabilità morali) e frangenti che sicuramente vi faranno piangere tutte le vostre lacrime come è capitato al sottoscritto, più volte, in sala. Inutile dire che la performance impeccabile di un mostro sacro come Akira Emoto – attore che ha recitato per grandissimi come Kore’eda, Miike, Kitano e Kiyoshi Kurosawa – ha contribuito alla mia sincera commozione.

Shannon Mahina Gorman, invece, è l’esatto opposto di Emoto, ovvero alla sua prima esperienza cinematografica. Ciò, tuttavia, non le impedisce di portare in scena un personaggio convincente e tenero nella sua spontaneità contagiosa. Per impersonarne il padre, Phillip Vandarpleog diventa Kevin e cerca in tutti i modi di rispettare la prima regola imposta dall’azienda: non affezionarsi troppo ai clienti. Infatti, la madre single della bambina (Shino Shinozaki) è purtroppo un’incosciente che ha bisogno di un finto marito per poter iscrivere la figlia presso una delle scuole private più prestigiose e competitive del paese. Un inganno in piena regola che gioca con le emozioni, in nome del puro egoismo e della brama di apparire come una famiglia benestante e degna di stima (un’idea basata sull’infanzia della regista, passata insieme a una mamma che mentiva per proteggerla).

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Phillip e Mia.

Nonostante l’obbligo di reprimere i propri sentimenti – in perfetto stile nipponico – è fin troppo facile confondere la finzione con la realtà durante il lavoro da controfigura di Phillip/Kevin. Un percorso di apprendimento per essere un autentico genitore che ricorda una versione meno tragica della parabola padre-figlia vista in The Whale di Aronosfky (film che, guarda caso, ha convinto Hikari a scritturare Fraser). Dov’è il confine tra l’aiutare le persone con difficoltà emotive e il far loro del male con delle bugie pianificate a tavolino? Quanto tempo passa prima che queste bugie diventino la verità? Molti, ahinoi, si autoconvincono delle proprie menzogne e finiscono per crederci; perciò bisogna sempre tenere a mente questi interrogativi di carattere etico e morale.

A questo proposito, persino Shinji – che dovrebbe essere un punto di riferimento per tutti i suoi dipendenti – si scontra con una gravosa contraddizione: vuole fare il buon samaritano e supportare i bisognosi, ma non accetta il fatto che le loro storie possano avere un forte impatto sui “familiari in affitto” che spedisce in giro per Tokyo. Un cortocircuito che può danneggiare, per modo di dire, sia il paziente che il medico. Cosa di cui Takehiro Hira (Shōgun, Captain America: Brave New World) si è reso conto nei giorni precedenti alle riprese, mentre ascoltava le testimonianze di persone reali che assoldano abitualmente amici fittizi per sentirsi meglio. Non è dunque un caso che la sceneggiatura, scritta a quattro mani dalla regista stessa e Stephen Blahut (37 Seconds), prema proprio sul reame dell’affettività per scandagliare la condizione umana contemporanea e le sue vulnerabilità.

Un compito assai delicato dal momento che, come ci ricordano alcuni dialoghi tra i personaggi, in Giappone il malessere mentale o i traumi psicologici sono visti come imbarazzanti o disonorevoli, motivo per cui le persone ricorrono a soluzioni alternative come palliativi. Gli abitanti di Tokyo (e non solo) preferiscono pagare una figura che offra conforto o compagnia temporanei per condividere i propri problemi o semplicemente per chiacchierare, anziché rivolgersi a uno specialista. La popolarità crescente di tali attività di noleggio come quelle descritte in Rental Family è dovuta a una tendenza all’isolamento – acuita dalla recente pandemia di COVID-19 – e alla mancanza di legami sinceri con chi ci circonda; uno stigma preoccupante evidenziato anche e soprattutto da Death Stranding 2, un altro prodotto del Sol Levante che ragiona a lungo sui concetti di connessione e comunità.

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Phillip e Kikuo Hasegawa.

Oltre alla componente psicologica, il film abbraccia la religione shintoista per completare il discorso sull’emotività umana. “Otto milioni di dèi” è l’espressione filosofica che viene usata in sceneggiatura per veicolare queste riflessioni. Questa indica il numero spropositato di divinità – dette kami (神) – che popolano la tradizione; l’interpretazione più calzante di tale credenza ci dice che il divino è in tutte le cose, anche dentro di noi. Ne consegue che le nostre azioni benefiche – come evidenziano sia il cristianesimo che la dottrina indiana del karma – possono renderci “dio per il prossimo”, non per aspirare a essere suo pari, ma per spargere il bene in quanto sua manifestazione.

In questo, Brendan Fraser fa ciò per cui è nato: bilanciare cuore e umorismo con affabilità e carisma in una prova attoriale eccezionale. Proprio come le persone che chiedono il suo aiuto in questo film, tutti noi avremmo bisogno di qualche minuto in compagnia di Fraser nella vita. Lui e il suo alter ego Phillip Vandarpleog sono dei supereroi, dei Superman in carne e ossa; basti pensare all’impegno profuso dall’attore per imparare da zero il giapponese così da immergersi nella cultura dell’arcipelago, recitare in maniera credibile e immedesimarsi al fine di non risultare “un pappagallo che ripete frasi a memoria senza conoscerne il vero significato“. La parola d’ordine per Fraser è stata “realismo“, motivo per cui si è imbarcato in un personalissimo viaggio-studio a Tokyo per imparare dagli abitanti del luogo e raccontare la sua esperienza sullo schermo, senza filtri (incrociando di tanto in tanto dei fan che, giustamente, si chiedevano cosa diavolo ci facesse seduto nei treni della linea Yamanote).

La somma di tutti questi elementi rende Rental Family una tragicommedia di una dolcezza disarmante, il cui unico difetto è forse il voler insistere – a volte gratuitamente – proprio sull’emotività a tutti i costi. A livello di scrittura, infatti, nonostante l’anima orientale la pellicola è molto “americana”, quasi classica. Vale a dire che chi è avvezzo a certi tipi di drammi familiari sa dove potrebbe andare a parare lo script nelle sue fasi più avanzate. Eppure, il lavoro di Hikari e colleghi è ben lontano dall’essere semplicistico e gode anzi di notevoli stratificazioni di significato. In definitiva, un onesto comfort movie che porta a casa il suo compito in maniera ottima, in barba a coloro che lo definiscono già un prodotto furbo e “crowd-pleaser”.

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A sinistra, Mari Yamamoto nei panni di Aiko.

Se registicamente la pellicola è a metà tra Past Lives e Perfect Days, la direzione della fotografia è invece affidata alla mano esperta di Takuro Ishizaka (Manhunt, Estranei) che ci regala giochi di luce coloratissimi che seguono i sentimenti di tutti i personaggi, dalle sfumature di blu per i momenti di tristezza, a vibranti tinte arcobaleno nei frangenti più gioiosi (specialmente quelli in compagnia di Mia). A coronare il tutto, le musiche evocative composte da Jónsi – frontman e cofondatore dei Sigur Rós – e dal suo ex compagno Alex Somers (Captain Fantastic), coppia a cui è stata data carta bianca e che ci ha regalato componimenti che fondono egregiamente drone ambient, musica classica contemporanea, prog ed elettronica.

Pur esibendo questo lato ricercato, l’opera di Hikari non si lascia mai andare a estetismi artificiosi e ridondanti come nel caso di Anemone – opera prima del figlio di Daniel Day-Lewis presentata in anteprima proprio alla Festa del Cinema – o a spiegoni ipertrofici à la Eddington. L’ottimo montaggio di Alan Baumgarten (American Hustle, Il processo ai Chicago 7) e Thomas A. Krueger (Shōgun) alterna dramma e commedia senza inciampi, grazie a scene concise che vanno dritte al punto, tagliando dove davvero serve ed evitando un andazzo comune in questa edizione del festival che ha visto la partecipazione di film-mattone. Anziché preferire gli snellissimi 110 minuti di Rental Family, numerosi lungometraggi hanno cercato di darsi un tono con scelte ampollose o ricercatezze fini a loro stesse che non hanno fatto altro che ricordarmi questa sequenza memorabile di Mr. Bean’s Holiday.

L’ultimo elemento tecnico che merita di essere messo in luce è il rispetto assoluto per la cultura giapponese, così lontana da noi occidentali. Laddove un altro film presentato alla Festa – ovvero Glenrothan di Brian Cox – utilizza banali cornamuse, verdi colline e laghi fino allo sfinimento per glorificare la Scozia dove le vicende sono ambientate, gli scenografi Masako Takayama e Norihiro Isoda (quest’ultimo fedele collaboratore di Takeshi Kitano) hanno sapientemente evitato di riempire le inquadrature di ciliegi in fiore, insegne al neon e pagode.

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Non ho dubbi nel definire l’ultima fatica di Mitsuyo Miyazaki uno dei migliori lungometraggi dell’anno (anche se il pubblico italiano in realtà dovrà aspettare gennaio 2026) e forse un instant cult. Di certo la mia sensibilità agli argomenti trattati, nonché al Giappone stesso, mi rende dichiaratamente di parte, ma credetemi se vi dico che è abbastanza difficile non rimanere segnati almeno un po’ dalle piccole storie che ci vengono presentate. “Una famiglia è composta dalle persone, dagli amici che scegliamo di includere nelle nostre vite, da chiunque, non da chi ci viene assegnato alla nascita”, ha affermato Brendan Fraser durante il tour promozionale. Solo chi ha il cuore arido rimane impassibile di fronte a certe riflessioni, specialmente nella società contemporanea governata dall’egoismo.

Al giorno d’oggi, infatti, una relazione sentimentale non viene valutata per il suo valore intrinseco, ma per la gratificazione emotiva immediata che ci offre. Quando qualcosa non ci emoziona più, il nostro primo istinto è quello di liberarcene. Questa ossessione è stata intercettata dal consumismo che l’ha trasformata in merce: siamo diventati “turisti emotivi”, in perenne ricerca di appagamento istantaneo e dipendenti dai sentimenti forti. Le app di dating e, presumibilmente, i servizi “rent-a-family” giapponesi non sono altro che i nostri spacciatori di fiducia. Le emozioni non sono negative, tutt’altro, e non è necessario reprimerle; l’obiettivo, realisticamente, è quello di riscoprire la medietà aristotelica: riconoscere che i sentimenti sono segnali vitali e che la vera saggezza non sta nell’inseguirli ciecamente, ma nel chiederci ogni volta il perché di ciò che proviamo e soprattutto se ci stanno ingannando.

Credo fermamente che il cinema possa rendere il mondo un posto migliore. Ci permette di osservare il prossimo con uno sguardo empatico, crea momenti di conversazione, e scruta parti di noi di cui non siamo nemmeno a conoscenza. Abbracciare il cinema fa scomparire ogni muro per lasciare spazio all’umanità – Hikari

Nefasto Articoli
Videogiocatore incallito, cinefilo dalla nascita, attore di teatro e batterista da diversi anni. Adoro approfondire qualsiasi cosa abbia a che fare con l'arte e l'audiovisivo: è difficile fermarmi quando inizio a scrivere o a parlare focosamente di ciò che amo.

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