Elio, un film incolore e inerte

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Disney è alla canna del gas e dal 2021 circa, anno di uscita del pessimo Luca, sta trascinando nel baratro anche la povera Pixar. Mancano le idee, manca la creatività, manca la voglia di osare e tutto si appiattisce in una triste mediocrità che ha il solo scopo di consegnare ai cinema e alle piattaforme l’ennesimo prodotto per fare cassa (mascherato da opera di pregio). Un tracollo in puro stile capitalista che nel tempo ha portato a un netto cambio di rotta: un film Pixar non è più tra gli eventi maggiormente attesi dell’anno, bensì un avvenimento di passaggio che si perde nel marasma di operazioni commerciali a marchio Walt Disney, venendo dimenticato poco dopo. Elio e la sua nuova avventura spaziale, ahinoi, non fanno eccezione.

Nelle presentazioni al pubblico, l’azienda del topastro malefico ha pensato bene di spingere molto sui registi, quasi fossero loro il fiore all’occhiello di tutta la produzione, ma vi svelerò un segreto: non lo sono affatto. E chi crede di trovarsi davanti ai nuovi John Lasseter o Pete Docter è lontano anni luce dalla realtà. Madeline Sharafian, Domee Shi e Adrian Molina non vantano alcun pregio degno di nota, quanto semmai dei demeriti. La Sharafian è alla sua prima esperienza registica dopo aver lavorato come Storyboard Artist per Coco e Red; la seconda è proprio la regista del dimenticabilissimo lungometraggio con il panda rosso. Adrian Molina è forse l’unico membro salvabile del trio, in quanto co-regista del già citato Coco e, soprattutto, Storyboard Artist di Ratatouille e Toy Story 3. Non si parla, però, di pezzi da novanta.

Come il protagonista Elio Solís, imbarchiamoci dunque anche noi in un viaggio in cerca di risposte per scoprire cosa non ha funzionato nemmeno stavolta in quella che avrebbe potuto essere una pellicola di rinascita per la Pixar, ma che si è rivelata essere un buco nell’acqua o, meglio, un buco nero fatto di pigrizia e approssimazione.

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Elio è un bambino di undici anni tanto esuberante quanto solitario e incompreso, che oggi potremmo benissimo definire un individuo neurodivergente. Orfano di entrambi i genitori, convive con la zia paterna Olga e fatica ad adattarsi a lei e al mondo che lo circonda. La donna, Maggiore dell’Air Force, è una radioastronoma e ricercatrice SETI e si dedica giornalmente all’analisi di possibili segnali intelligenti provenienti dallo spazio; come spesso accade in racconti di questo genere, il suo lavoro la porta a perdere di vista il nipote. Quest’ultimo, data la grande passione familiare per l’astronomia, sviluppa una fissazione per il programma spaziale Voyager e per il Voyager Golden Record. In altre parole, seguendo fedelmente il paradosso di Fermi, è convinto dell’esistenza degli extraterrestri e si mette in testa di contattarli con ogni mezzo possibile per fare amicizia, fino a sembrare un folle complottista.

In un ultimo, disperato tentativo, Elio riesce a sgattaiolare nella Montez Air Force Base, l’osservatorio astronomico in cui Olga lavora. Qui manda personalmente un messaggio nello spazio in cui implora di essere rapito dagli alieni per fuggire dalla Terra che ritiene tanto inospitale. In un primo momento pare tutto inutile; non solo: il ragazzino viene scoperto, punito dalla zia e mandato in un collegio militare per essere rieducato. Qui subisce le angherie di alcuni bulli a causa del suo comportamento infantile e bizzarro, ma proprio quando sta per vedersela brutta, un’astronave lo rapisce, salvandolo da un pestaggio. Elio è al settimo cielo: finalmente il suo sogno di essere rapito da un UFO è diventato realtà. Il bambino tuttavia non sa di essere stato coinvolto in un gigantesco malinteso.

I “sequestratori” sono infatti i membri del Comuniverso, un’organizzazione interplanetaria dove i rappresentanti di ogni galassia si sono uniti per preservare le culture e il sapere di tutto l’universo conosciuto (una sorta di versione fantascientifica ed effettivamente funzionante delle Nazioni Unite). Il caso ha voluto che il satellite Voyager e il suo Golden Record siano giunti proprio presso il Comuniverso insieme all’S.O.S. di Elio. Quest’ultimo viene quindi erroneamente scambiato per l’ambasciatore della Terra e invitato a unirsi agli altri governatori. Inizialmente scosso dalla grande notizia e conscio di non essere affatto un leader carismatico, il protagonista decide comunque di stabilirsi lì, conquistato dalle meraviglie aliene che lo accolgono e lo fanno sentire accettato come nessuno aveva mai fatto nel mondo umano.

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Purtroppo l’idillio viene bruscamente interrotto da Lord Grigon, un feroce signore della guerra che vuole entrare a far parte del Comuniverso con le cattive maniere. Intenzionato a mantenere il suo ruolo di ambasciatore, Elio si fa avanti per negoziare con il tiranno, portando avanti una grossa messinscena degna della più dozzinale commedia degli equivoci. Da dove cominciare?

Il comparto estetico è sicuramente ciò che ci attrae di più in un prodotto animato, è quella componente che spesso “vende” il prodotto e porta la gente a incuriosirsi. Di conseguenza, non nego che l’astronomia e lo stile sci-fi siano stati quegli assi nella manica utili a risvegliare il mio interesse per quest’ultima fatica Pixar. Da una base di partenza indubbiamente interessante come la voglia di rispondere alla domanda “Siamo soli?” – affrontando la più profonda delle incertezze umane – lo studio ha sviluppato la sua idea di spazio profondo ed extraterrestre.

Sulla carta è tutto ispirato e ricco di suggestioni, ma nella realizzazione vera e propria ci troviamo davanti ad arte estremamente derivativa e poco impattante. Devo dare ragione al collega Lorexio che denota una pigrizia galoppante in Pixar, al suo sesto lungometraggio caratterizzato da “accattivanti” modelli tondeggianti e un taglio che sfiora il Corporate Memphis senz’anima. Il contrasto vogleriano tra mondo ordinario e mondo straordinario è quantomai chiaro: la Terra – mostrata la maggior parte del tempo attraverso spigolose basi militari brutaliste e luoghi monocromatici, simmetrici e ripetitivi – cozza con il Comuniverso, eccentrico e variopinto. Una scelta comprensibile, ma troppo ridondante, quasi come se si volesse inculcare incessantemente questo senso di meraviglia.

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Una ripetizione palesata ancor di più da un elemento che personalmente ho trovato puerile nella sua banalità: la maggior parte dei comprimari terrestri, specialmente Olga, indossano costantemente le divise dell’Air Force, a ribadire il loro ruolo di umani noiosi e inquadrati, in opposizione alle fantasie spaziali. Una divisione netta tra bianco e nero che non solo stona alla lunga, ma che è stata già vista – e impostata meglio – in numerose pellicole affini come Il gigante di ferro o Avatar. Nonostante l’ispirazione ai minuziosi dettagli della macrofotografia per donare al Comuniverso un aspetto organico e naturale – come ha sottolineato lo scenografo Harley Jessup (Monsters & Co., Ratatouille) – la visione proposta dalla Pixar è tutt’altro che inedita e si mostra bensì come un minestrone di fantascienza già rodata, a cavallo tra anni Ottanta e Novanta.

Durante la conferenza stampa tenutasi a Roma per la presentazione del film, Madeline Sharafian Domee Shi hanno entrambe dichiarato che Elio è il loro esordio nel cinema sci-fi e, purtroppo, si vede eccome. L’inesperienza ha portato a un mix poco consapevole di suggestioni e scopiazzature dagli esponenti più blasonati del genere, da Incontri ravvicinati del terzo tipo di Spielberg a La cosa di Carpenter, passando per Alien di Scott e persino Dune di Villeneuve. Quest’ultimo, in particolare, è stato sfruttato soprattutto per mettere in scena i guerrieri del pianeta Hylurg capeggiati da Grigon (alla faccia del “mondo spaziale mai visto prima” raccontato nelle varie interviste promozionali).

Nulla di nuovo sotto il sole insomma, quando dall’esperienza quarantennale dello studio californiano ci si aspetterebbe ben altro. La coppia di registe insiste con l’ambizione dicendo che il loro lungometraggio “incarna davvero quel senso di meraviglia e immaginazione“, riferendosi al già citato Spielberg, mentre ciò che traspare è solo svogliatezza. E questo discorso si estende ovviamente al design degli ambasciatori extraterrestri, da Questa del pianeta Gom – una classicissima fusione tra un drago marino e una manta – alla diplomatica Turais che, a fronte di tutti i “grandissimi sforzi creativi” millantati dalla produttrice Mary Alice Drumm (Ribelle – The Brave, Elemental), altro non sembra che un preservativo con un occhio solo (e a questo punto NON volete sapere a cosa assomiglia l’ambasciatore Auva).

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L’ambasciatore Auva è il secondo da sinistra, al centro c’è Questa e l’aliena viola a destra è Turais.

Quando poi è lo stesso Character Supervisor Sajan Skaria (Toy Story 4) ad ammettere che Glordon – il figlio di Lord Grigon che fa amicizia con Elio – è stato di gran lunga il personaggio più difficile da realizzare, ci rendiamo conto di quanto sia ormai zoppicante tutto l’impianto artistico Pixar. L’alieno è ispirato a un tardigrado e si mostra come un incrocio tra un beluga e una foca; nulla di troppo strano o complesso, no? E invece questa sua “morbidezza” ha reso le animazioni davvero ostiche da calibrare, sempre a detta di Skaria. Chissà cosa penserebbe Gints Zilbalodis che con Blender e due spiccioli – contro gli oltre 300 milioni di dollari di budget di Elio – è riuscito a modellare senza fatica e con estremo realismo tutti gli animali di Flow.

Più si esamina attentamente il Comuniverso, più storture saltano fuori. A far cascare le braccia è anche un autocitazionismo svogliato e incarnato dal supercomputer OOOOO (sì è il suo vero nome), immaginato come un esserino di forma liquida che accoglie e guida Elio al suo arrivo nello spazio. Descritto dallo studio e dalla VFX Supervisor Chung Sanji come qualcosa di “totalmente nuovo“, è in realtà un personaggio mosso con un modello (rig) privo di geometrie; niente fantascienza. OOOOO è un semplice shader grafico su forme implicite – forme definite da equazioni anziché da punti tracciati nello spazio – ricreato con una tecnologia vecchia di decenni, ovvero le metaball. Chi si ricorda le anime dell’Antemondo viste nello splendido Soul, capirà subito da dove arriva la malcelata ispirazione per l’avveniristico computer.

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OOOOO al fianco di Elio.

Il vero chiodo sulla bara quindi è rappresentato da un immaginario ormai debole e sempre più piatto. Quasi tutto sa di già visto e se per caso spunta fuori qualcosa di peculiare o innovativo, manca l’approfondimento necessario affinché spicchi nel film. Il vero problema di Elio è uno: lascia indifferenti. Complice di ciò è la sceneggiatura scritta a sei mani, alquanto modesta e incastrata in schemi ricorrenti e stereotipati; un vero peccato viste le premesse quantomeno stuzzicanti. Stringendo al massimo, il sunto del lungometraggio è: Elio pensa che non ci sia nulla per lui sulla Terra e sogna di andare su un altro mondo dove poter essere accettato per ciò che è. Riponendo tutta la sua fiducia nella vastità dell’universo, intravede la promessa di un legame vero.

L’accettazione del diverso, l’affrontare la solitudine per entrare in relazione col prossimo, l’esplorazione di mondi alternativi… Dove abbiamo già sentito questa solfa? In almeno una ventina di opere, targate sia Disney che Pixar. Quelle da cui Elio rubacchia più vistosamente sono certamente Lilo & Stitch, Strange World e Luca. Ogni tanto si tenta di offrire qualche novità tirando in ballo idee inedite come delle riflessioni sui radioamatori, figure che più volte hanno contribuito ad arricchire la storia dell’ufologia. Anche in questo caso, tuttavia, è mancato il vero interesse per approfondire un topic simile (se vi appassiona, consiglio l’ottimo film indipendente The Vast of Night di Andrew Patterson).

Tutto viene lasciato in superficie e non si riesce dare fiducia alle parole della produttrice Drumm che parla di “un minuzioso lavoro di ricerca insieme a consulenti e astronomi per pensare allo spazio in modo più ampio“. Uno sforzo del genere avrebbe aiutato la crew a sentirsi più legati al pianeta Terra, lo script infatti è contraddistinto da toni molto speranzosi e ottimisti per il futuro. Il lungometraggio vuole trasmettere un messaggio di pace che invogli a vivere in armonia nel mondo che abbiamo costruito; un messaggio che ha infinocchiato gran parte del pubblico, visto l’attuale periodo storico, e gli applausi non hanno tardato ad arrivare. Dico io: come si può cascare in una trovata così facilona? Basta davvero gridare “viva l’amicizia” per risolvere i conflitti odierni? “Dobbiamo vivere sulla Terra tutti uniti e felici!”, ok ma come? Il film ovviamente non dà risposte.

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Questa semplificazione all’osso di ogni aspetto della pellicola è la seconda piaga che infesta le produzioni Disney recenti, e non venitemi a dire che è tutta una questione di target perché, ripetiamolo ad alta voce, i bambini NON sono degli idioti. Per trasmettere idee, concetti e temi non servono spiegoni didascalici, men che meno se vengono enunciati a più riprese da ogni personaggio del copione. “In questa storia è forte il tema della connessione e ha davvero colpito tutti noi” afferma fiera la produttrice, e non nego che ci sia, ma posso anche smontare tutti questi discorsoni altisonanti evidenziando che Death Stranding l’ha reso meglio e con sei anni di anticipo.

La mia non vuole essere cattiveria gratuita, credetemi, ma di fronte a una Domee Shi che davanti a decine di persone in conferenza stampa dice che non ha senso realizzare un film con tematiche ricche, stratificate o complesse e che è meglio sintetizzare e – appunto – semplificare, io posso solo provare sconforto e rabbia. Se come spettatori vi fate andar bene tutto questo, se accettate cinque anni di lavoro per l’ennesimo prodotto fotocopiato e venduto come innovativo, se vi meravigliate di fronte all’assoluta e dimenticabile aridità di Elio, non fate altro che alimentare un morbo che di anno in anno sta corrodendo il cinema d’animazione.

Un ringraziamento speciale a The Walt Disney Company Italia

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Videogiocatore incallito, cinefilo dalla nascita, attore di teatro e batterista da diversi anni. Adoro approfondire qualsiasi cosa abbia a che fare con l'arte e l'audiovisivo: è difficile fermarmi quando inizio a scrivere o a parlare focosamente di ciò che amo.

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