The Monster Within – Esplorando la mente di Keiichirō Toyama

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Keiichirō Toyama. Per alcuni questo nome non ha alcuna importanza, ma per tantissimi appassionati di videogiochi e soprattutto di horror, Toyama-san è uno dei migliori game designer viventi. Basta un nome per rendersi conto della sua enorme influenza: Silent Hill, capolavoro che lui stesso ha concepito e firmato nel 1999; il resto è storia. Invitato a Bologna in occasione della quindicesima edizione del Festival NipPop, è stato entusiasta di condividere con pubblico e appassionati numerose riflessioni sulla sua carriera, grazie a un workshop e, in secondo luogo, a un lungo talk speciale intitolato The Monster Within – The Underlying Japanese View of Monsters.

Prima di addentrarci nella fervida mente di Keiichirō, è bene spendere due parole su NipPop, l’Associazione Culturale che da anni in Italia organizza eventi per promuovere la cultura giapponese contemporanea, con un focus particolare su animazione, manga, cinema, arte, televisione, musica e letteratura. NipPop nasce nel 2011 e nel 2013 diventa un’associazione grazie al supporto del Dipartimento di Lingue, Letterature e Culture Straniere dell’Università di Bologna. A dirigere e coordinare le varie iniziative è Paola Scrolavezza che ogni anno si adopera per coinvolgere studiosi, esperti e artisti di fama internazionale.

NipPop: Parole e Forme da Tokyo a Bologna è il main event promosso dall’ateneo bolognese, e nel corso della quindicesima edizione da poco conclusa – intitolata INTO THE DARK – ha esplorato il lato inquieto del Giappone nonché la figura del mostro in tutte le sue declinazioni; “l’estetica del mostruoso che permea la cultura giapponese fin dalle origini, protagonista nell’arte visiva e nella letteratura, ispiratrice di immagini e racconti sempre nuovi“. E chi meglio di Keiichirō Toyama per parlare dei mostri di ieri e oggi?

I punti di contatto tra Alien e Silent Hill

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Keiichirō Toyama durante il talk.

Sul palco, il game director ha potuto godere della compagnia di un’altra figura importante per la divulgazione videoludica odierna, ovvero Fabio Di Felice, autore di due saggi: Keiichirō, un libro – non a caso – sulla vera storia del team che ha inventato Silent Hill, e Hideo nasconde qualcosa, volume molto approfondito sul celeberrimo Hideo Kojima. Uno degli obiettivi del talk è stato capire come “partecipare” a un horror attraverso il videogioco. Quest’ultimo è una forma espressiva relativamente giovane e merita di essere sviscerata minuziosamente così da comprendere anche come funziona l’interazione e l’immedesimazione in un’opera audiovisiva.

Dietro i mostri c’è tanta cultura” è stata una delle frasi chiave dell’incontro, nonché uno dei motivi che ha spinto Di Felice a scrivere un libro su Silent Hill, una saga purtroppo dimenticata dalle generazioni odierne, specialmente dopo la svolta occidentale avvenuta a seguito del quarto capitolo. Il primo titolo ha dato tanto al mondo dell’horror ed è giusto riscoprirlo, soprattutto al giorno d’oggi in cui l’hype per il remake di Silent Hill 2 si è fatto tanto sentire. Dunque, cosa rendeva così spaventoso quell’esordio? Ci sono elementi del suo design che vengono riutilizzati tuttora?

Innanzitutto Toyama ha tenuto a precisare di aver lavorato a giochi caratterizzati da generi e stili espressivi molto diversi fra loro, ma nonostante ciò ha mantenuto fede a un precetto che lo ha sempre guidato: fare in modo che il sistema di gioco e il mondo narrativo siano profondamente interconnessi per garantire esperienze immersive e originali (basti pensare a Gravity Rush, cavallo di battaglia di PSVita che ha fatto del controllo della gravità il suo marchio di fabbrica).

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Uno screenshot dal primo Silent Hill per PlayStation 1.

Una volta assorbito questo concetto, si passa al cuore della discussione con una domanda: qual è il mostro cinematografico più famoso del mondo? Le risposte sono decine e decine, ma al papà di Silent Hill bastano due esempi: lo xenomorfo e Godzilla, una coppia equivalente.

Il primo ha avuto un fortissimo impatto sulla generazione di Keiichirō, nato negli anni Settanta: nonostante l’arretratezza tecnologica, l’alieno riusciva a terrorizzare persino attraverso i pochi pixel delle televisioni a tubo catodico. Ciò che lo differenziava dagli altri “colleghi” mostruosi di matrice prettamente umana, era il design biomeccanico di Giger che sfidava la rassicurante normalità con forme disturbanti ma sinuose allo stesso tempo (oggi diremmo “uncanny“); quasi a voler mostrare persino un lato perverso e sessuale.

Proprio questa dimensione perversa accomuna Alien e Silent Hill: gli orrori mostrati in entrambe le opere sono lo specchio delle nostre paure più intime e recondite; sono proiezioni psicologiche dei sentimenti umani che prendono forma in modo tangibile, in particolare se si parla di fattori ansiogeni come la sessualità repressa. In altre parole, la paura emerge dal nostro subconscio, non è causata da fonti esterne.

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“Necronom IV” (1976) di H.R. Giger.

Un discorso simile può essere fatto per le ambientazioni che caratterizzano i due prodotti: le metamorfosi del mondo narrativo spaventano tanto quanto le trasformazioni del corpo umano. Luoghi avvolti dalla nebbia, ricoperti di ruggine o immersi nel silenzio tombale possono generare terrore anche in assenza di un nemico specifico da affrontare. La paura dell’ignoto e dell’invisibile è spesso maggiore del timore che si avverte dinnanzi a qualcosa di chiaro e comprensibile. Gli spazi claustrofobici presenti sia sulla USCSS Nostromo che nella città immaginata da Keiichirō Toyama fanno poi da collante e aumentano le nostre insicurezze.

Non sorprende dunque che il grande Masahiro Ito, monster designer di tutta la saga di Silent Hill, abbia avuto Alien come sua influenza principale. La fusione tra fisicità estrema e bellezza funzionale è ciò che ha reso possibile la visualizzazione di traumi e perversioni. Un concetto che può essere sintetizzato con questa espressione: “Organic bodies with mechanical logic: beauty in utility, terror in form“.

Da Godzilla a Ultraman: l’eredità mitica dei Tokusatsu

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Un sorridente Eiji Tsuburaya insieme ai suoi adorati mostri.

Pur essendo un mostro gigante nato dalla rabbia per la catastrofe atomica che si abbatté sul Giappone nel 1945, il lucertolone più famoso del mondo ha subito una grossa rilettura dal 1970 in poi, diventando – come racconta lo stesso Toyama che seguiva le sue avventure in TV – un prodotto per ragazzi, un protettore della Terra e non il suo distruttore. “Nonostante sia tornato a essere feroce negli ultimi film, non si può dire che Gojira sia un essere malvagio“, afferma il game director ricordando che i lungometraggi che guardava lui non erano altro che dei divertenti “incontri di wrestling tra kaijū“.

Il successo di Godzilla e delle numerose icone pop che hanno popolato e popolano il Sol Levante si deve in gran parte a Eiji Tsuburaya, il mago degli effetti speciali che hanno dato forma ai mostroni che tanto amiamo. La Tsuburaya Productions è stata il ponte che ha collegato una creatura più “anziana” come Godzilla con un altro caposaldo della cinematografia nipponica, ovvero Ultraman. “Per le persone nate negli anni Settanta, quest’ultimo non era solo un eroe, ma un vero e proprio mito incarnato“; dalla sua prima apparizione, i kaijū sono passati dall’essere minacce a entità protettrici.

Nulla di tutto ciò sarebbe stato però possibile senza una seconda figura fondamentale: Tōru “Tohl” Narita, il visual artist visionario, padre del franchise Ultra di allora (che comprendeva Ultra Q, Ultraman e Ultraseven). L’artista ha donato un’anima a questi personaggi, dando vita a un’estetica che ha segnato un’intera generazione. Grazie a lui i mostri si caricano di storia e di precetti filosofici buddhisti e animisti.

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Alcuni lavori di Tohl Narita.

Per Narita ogni singolo mostro doveva essere ricco di significato. Un significato tratto dalla tradizione “invisibile” della filosofia giapponese, appunto. Nell’animismo tutto è – perdonate il gioco di parole – animato da uno spirito: la natura è considerata una minaccia da rispettare e ciò non deve sorprendere, vista la lunga storia di disastri naturali che spesso hanno martoriato l’arcipelago nipponico. I kaijū di Narita vengono quindi raffigurati come inevitabili forze della natura o entità estranee di difficile comprensione, come se incarnassero il karma o i sentimenti più nobili dell’animo umano.

Narita è stato “uno scultore di anime surrealista” che è riuscito egregiamente a fondere le avanguardie occidentali con le radici profonde della mitologia giapponese. Sogni e metamorfosi erano i suoi temi preferiti; uno stile unico che, se analizzato con cura, ci fa pensare “questi design li ho già visti da qualche parte” perché provenienti in modo indiretto da tradizioni antichissime.

L’estetica dell’horror orientale, tra maledizioni e filosofia

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Ringu (1998) di Hideo Nakata.

Facciamo un salto nel pieno degli anni Novanta, poco prima dell’uscita di Silent Hill. In quel periodo, cinematograficamente parlando, aveva preso piede e si era sviluppato il J-Horror; un filone che poteva contare su Cure e Ringu come suoi massimi esponenti. Questo tipo di genere orrorifico è molto più astratto della controparte occidentale e ha come base il concetto di maledizione. Il rancore, un qualche tipo di contagio malefico, il malaugurio o gli anatemi sono gli elementi fondanti delle narrazioni dell’orrore in Asia; per dirla con le parole di Keiichirō Toyama: “il J-Horror sussurra e attende nell’ombra, è un virus dell’anima“.

Nella lingua giapponese c’è poi un termine prezioso che aiuta a definire ancora meglio le caratteristiche che dovrebbe avere un horror efficace: il “Ma” (間). È un carattere sul quale si potrebbero scrivere migliaia di pagine di letteratura e centinaia di saggi diversi, quindi vi invito caldamente ad approfondirlo anche dopo la lettura di questo articolo. In nome della sintesi, possiamo dire che la sua traduzione letterale è “spazio intermedio“, “vuoto” e/o “pausa”. È quell’incertezza spaziale assai utile per scolpire i luoghi di una narrazione spaventosa o ansiogena.

Pensate al taoismo cinese che considera lo spazio vuoto importante tanto quanto lo spazio pieno, in un equilibrio armonioso e complementare tra ying e yang. Nella cultura giapponese si può dire che “tutto” e “vuoto” coincidono senza incorrere in un errore logico. Se in Occidente, sulla scia del pensiero greco, si è radicata l’idea dell’horror vacui (la paura del vuoto), e quindi un’idea negativa – privativa del vuoto come il nihil latino che è assenza e “nulla negativo” – in Oriente il vuoto è considerato come la condizione a priori perché il pieno (i fenomeni, le cose) possa esistere e operare. Si parla di “vuoto utile“, ricco di potenzialità espressive (basti pensare a quanto hanno influito nella cultura di Internet gli spazi liminali). Quelle stesse potenzialità espressive possono generare paura in un racconto dell’orrore: il silenzio in una stanza buia, una presenza invisibile ma percepibile, il male che incombe e così via. Da qui nasce tutto Silent Hill.

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Uno screenshot da “Slitterhead” il videogioco più recente firmato da Keiichirō Toyama.

Le caratteristiche appena elencate restituiscono molto bene la sensazione di perdersi in un incubo pur rimanendo nel mondo reale. Ecco perché c’è anche una certa affinità tra Keiichirō e i personaggi femminili, mediamente più vulnerabili e di conseguenza perfetti per approfondire l’interiorità ogni individuo. A questo proposito, il game director cita i romanzi Carrie di Stephen King e Incubi (The Door to December) di Dean Koontz come grandi fonti di ispirazione. Il suo film preferito in assoluto, però, rimane Alice del 1988, diretto da Jan Švankmajer; un delirio surrealista e grottesco che unisce live action e stop-motion.

In sostanza, l’horror è una materia intima, la paura sgorga da dentro di noi e plasma lo spazio che ci circonda attraverso visioni angosciose e traumi. “Horror is the shape of thought“. Fedele a ciò, Keiichirō Toyama definisce i tanto citati mostri come espressioni di ricordi negativi e del suo inconscio, unite a tutte quelle idee prese in prestito e riadattate dai suoi predecessori che abbiamo nominato. In altri termini, una fusione tra il modernismo di Alien e la natura animista dei kaijū partoriti dalle vecchie generazioni di artisti. Impossibile non citare poi la mania per Twin Peaks: anch’essa ha inciso notevolmente sull’operato del Team Silent – Akira Yamaoka incluso – dal 1990 in poi, dato che David Lynch ha sempre sfruttato a dovere il concetto di “Ma (間)”, quel limbo tra sogno, incubo e realtà.

In conclusione, creare senza imitare è possibile proprio grazie a questo “prestito” continuo di sapere. Creare vuol dire tramandare, “creation is inheritance”: un processo che raccoglie spunti da altri talenti per costruire qualcosa di nuovo, così da partire dal passato per arrivare al futuro. È con queste parole che Toyama chiude il suo talk, passando il testimone. Con la speranza che i mostri che verranno dopo il suo lavoro a capo di Bokeh Game Studio, i mostri immaginati da noi appassionati, possano essere creazioni tanto oneste quanto bizzarre. Se questi discorsi riusciranno a influenzare anche solo un ascoltatore o un lettore, sarà una gioia immensa.

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Videogiocatore incallito, cinefilo dalla nascita, attore di teatro e batterista da diversi anni. Adoro approfondire qualsiasi cosa abbia a che fare con l'arte e l'audiovisivo: è difficile fermarmi quando inizio a scrivere o a parlare focosamente di ciò che amo.

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