Il caso Minamata, un grido ambientalista su pellicola

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Voto:

Questa è un’altra delle mie recensioni nate “per caso”, come quella di qualche mese fa dedicata a Un altro giro. Nello specifico, questa pellicola ha catturato il mio interesse mentre esploravo il profilo Spotify di uno dei miei compositori preferiti in assoluto: quel genio intramontabile di Ryuichi Sakamoto. Il mio occhio si è posato sulle ultime uscite dell’artista ed ecco spuntare nella lista la colonna sonora de Il caso Minamata.

Il titolo non mi era nuovo, poiché spesso ammazzo il tempo esplorando app come Letterboxd, ed è proprio su quest’ultima che questo lungometraggio del 2020 con protagonista Johnny Depp – allo stesso tempo ideatore e produttore del progetto – ha destato un nutrito clamore. La presenza di Sakamoto e il suo essere un film d’inchiesta dal sapore spiccatamente giapponese hanno dato vita al mix che mi ha fatto pensare “devo recuperarlo il prima possibile!”. Così è stato, e oggi sono qui a parlarvene.




La pellicola, presentata lo scorso anno al Festival internazionale del cinema di Berlino e distribuita in Italia da Eagle Pictures a partire dal 17 settembre, è tratta dal libro Minamata scritto a quattro mani dal fotografo documentarista statunitense William Eugene Smith, detto Gene, e dalla moglie Aileen Mioko Smith (questa ha anche contribuito alla stesura della sceneggiatura). Il volume racconta, attraverso gli occhi dei due coniugi, uno dei più terrificanti disastri ambientali della storia del Giappone: la malattia di Minamata.

La sindrome venne scoperta per la prima volta nel 1956 presso la città da cui prende il nome, nella Prefettura di Kumamoto; venne causata dal rilascio – perdurato dal 1932 al 1968 – di metilmercurio nelle acque reflue dell’industria chimica Chisso Corporation: il composto velenoso entrò in contatto con la fauna del mare di Shiranui e, dal momento che gli abitanti del piccolo villaggio di Minamata vivevano principalmente di pesca, finirono col subire un’intossicazione acuta da mercurio. I sintomi? Paralisi, coma e – nei casi più gravi – morte. I decessi furono migliaia e la ditta colpevole del disastro fece ben poco per assumersi le proprie responsabilità. Questa terribile tragedia è stata trasposta dal regista Andew Levitas nel lungometraggio che adesso andrò a sviscerare.

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Johnny Depp nei panni di William Eugene Smith.

New York City, 1971. Gene è un fotografo sboccato, alcolizzato e irriverente; lavora per la celeberrima rivista Life, alla cui direzione c’è Robert (Bill Nighy), un boss rigido e sprezzante o semplicemente “uno stronzo“, per usare le parole del protagonista. Convinto – erroneamente o meno – di essere il fotoreporter migliore che il periodico abbia mai avuto, Eugene si trova a fare i conti con una carriera ferma ad un punto morto: il suo conto in banca è in rosso ed è quindi costretto a vendere la maggior parte dei suoi averi per pagare l’affitto e mandare qualche spicciolo ai cinque figli. È un padre assente e dalla vita dissoluta, quasi bohémien; nonostante ciò, tra un tentato suicidio e l’altro, trova sempre il modo di essere scherzoso e ironico col prossimo. In questo, l’eclettismo di Johnny Depp dona al personaggio una solida credibilità e non potrebbe essere altrimenti, vista la sua passione per il fotografo che interpreta (a cui si è avvicinato quando era poco più che ventenne, restandone affascinato).

La svolta si presenta direttamente alla porta del pover’uomo: l’interprete Aileen, portata in scena da una dolcissima Minami che ha profondamente a cuore le tematiche de Il caso Minamata. La donna, offrendogli inizialmente il ruolo di sponsor per pubblicizzare le pellicole Fujifilm, rivela all’artista di aver bisogno di aiuto per portare all’attenzione dei media di tutto il mondo ciò che sta accadendo nella sua piccola comunità di Minamata. La gente continua ad ammalarsi e a morire, e all’Assemblea degli Azionisti – movimento popolare che si oppone all’operato della Chisso – serve una figura di spicco come il fotografo Smith. Quest’ultimo, ancora tormentato psicologicamente dai vecchi servizi giornalistici da lui curati durante la Seconda Guerra Mondiale presso Iwo Jima e Okinawa, rifiuta categoricamente l’invito. Saranno le notti insonni e gli incubi ricorrenti a convincerlo a dare una chance alla nuova amica, con la quale costruirà progressivamente un rapporto di stretta complicità.

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A destra, Bill Nighy interpreta Robert, il caporedattore di Life.

Sulla rivista di Robert “non c’è spazio per pubblicità di creme di bellezza del cazzo“: pescatori, anziani, bambini e animali muoiono come mosche. All’inizio la chiamavano “la strana malattia”, poi “la febbre del gatto ballerino” e ora malattia di Minamata, nessuno l’ha approfondita. Malgrado l’entusiasmo di Gene, Bob è riluttante a inviarlo in Oriente perché vorrebbe evitare guai in redazione. La cocciutaggine del fotografo, tuttavia, ha la meglio. In queste prime fasi del film, come anche nelle successive, il montaggio di Nathan Nugent (Frank) risulta molto buono e scorrevole; ciò dona alle vicende un passo incalzante.

L’arrivo di Eugene in terra nipponica viene sottolineato da una fotografia – curata da Benoît Delhomme (Van Gogh – Sulla soglia dell’eternità) – virata sul blu con sporadici toni di azzurro, misti al giallo sporco. Sembra che le atmosfere eteree, quasi documentaristiche, della Prefettura di Kumamoto – evidenziate ancor di più dalla splendida colonna sonora electro-ambient di Sakamoto che calza come un guanto – si fondano con la malattia nell’aria. L’avvelenamento da mercurio distrugge il tessuto cerebrale, causando spasmi, paralisi e convulsioni. La Chisso ne è a conoscenza, ma questo non ha impedito all’azienda di portare avanti i suoi sporchi affari per quindici anni.

In Giappone, il nostro protagonista, armato della sua fedelissima macchina fotografica Minolta SRT101 1966, interagisce con i locali e cattura momenti di vita quotidiana – la pesca in primis – o elementi ed eventi che attirano la sua attenzione. L’ambientazione dà modo di apprezzare le scenografie molto curate ad opera di Tom Foden, come il caotico appartamento del fotografo e i luoghi dove viene ospitato. In uno di questi, incontra il gruppo per i negoziati diretti, la già citata Assemblea degli Azionisti, che mira a farsi ascoltare dal presidente dell’industria chimica, ad ogni costo. Molti abitanti, tuttavia, non riescono a lottare perché assaliti dalla vergogna e dalla mancanza di speranza, rincarate ancor di più dal progressivo ammalarsi di famiglie intere.

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Come se non bastasse, Junichi Nojima, il famigerato capo della fabbrica – un granitico Jun Kunimura – sembra irraggiungibile e inscalfibile, chiuso al sicuro tra le mura e i grigi meandri articolati del centro di produzione. Posto di fronte a tali ostacoli, Eugene Smith vive nella disillusione: non riesce più a “suonare” né a “sentire” la sua macchina fotografica che per lui è sempre stata del “fottuto jazz“. Ad ogni modo, la resa non è contemplata: Life concede moltissimo spazio al lavoro del reporter che, guarda caso, coinciderà con una conferenza delle Nazioni Unite a Stoccolma. L’argomento principale? L’ambiente, per la prima volta nella storia. Anche gli antinuclearisti e l’OMS vengono coinvolti, sia negli Stati Uniti che in Giappone, per provvedere alla raccolta di dati scientifici. Quella di Smith è una spinosa corsa contro il tempo.

I nativi americani credevano che una fotografia portasse via un pezzo dell’anima del soggetto, ma quello che nessuno dice è che può portare via anche un pezzo dell’anima del fotografo. Ti spezza il cuore“, è per questo che la suddetta arte va affrontata seriamente. Bisogna concentrarsi sulla foto che si vuole scattare, su quello che si vuole dire. Una volta giunti al momento dello sviluppo, il segreto di Gene sta nell’accarezzare l’immagine, riscaldare la stampa con il calore delle mani, solo così è possibile raccontare la propria storia: questi e altri frangenti della narrazione rappresentano i punti più alti del lungometraggio, in quanto – con un certo fascino – raccontano allo spettatore il punto di vista di un fotografo dalla sconfinata sensibilità come William Eugene Smith, offrendogli un accorato tributo. Il regista, non a caso, è un fotografo egli stesso e, conoscendo bene il lavoro del suo idolo, ha cercato il miglior modo per trasporlo sullo schermo.

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Aileen e Gene in una scena del film.

A proposito di segreti, uno dei punti focali della trama è rappresentato da una sequenza che mostra l’angosciante Ospedale Aziendale della Chisso, dotato di controlli strettissimi per evitare che vengano introdotti al suo interno strumenti per foto e riprese video. Proprio qui, il protagonista e i suoi alleati raccoglieranno materiale prezioso per lo scandalo. In fondo agli occhi dei pazienti risiede la verità sulla strage. Sono poi delle scene horror nelle profondità dei laboratori, condite da reali immagini di repertorio, a sbattere in faccia al pubblico le atrocità che aleggiano su Minamata. In questi attimi torna insistente la musica del maestro Sakamoto – il brano Hidden Data in particolare – che il regista descrive così:

La colonna sonora per la pellicola doveva letteralmente rappresentare sia il meglio che il peggio dell’umanità. Secondo me, Ryuichi è stato in grado di cavalcare con eleganza il filo del rasoio e di dare alla luce questo esatto concept.

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Lo spietato presidente Nojima (al centro) e i suoi collaboratori.

Gli abitanti del piccolo villaggio di pescatori non hanno mai voluto la guerra, ma si trovano comunque a combattere una battaglia per il bene dell’umanità; in questo senso, la connessione intima tra esseri umani è un altro tema cardine (non c’è da stupirsi se il brano che accompagna i titoli di coda è intitolato One Single Voice). “Se i manifestanti avranno successo e faranno chiudere la Chisso” – obietta il presidente – “cosa succederà dopo?“. Con la scusa di dare lavoro ai residenti, il centro di produzione foraggia un’avida crescita economica macchiata del sangue di migliaia di vite. Per la fabbrica, il popolo è insignificante: c’è un bene superiore da raggiungere e i poveri locali non sono altro che “parti per milione” in un progetto malsano. La Chisso li ha corrotti per anni e continua a farlo con false promesse, millantando risarcimenti rapidi – accompagnati da documenti falsi – e approfittando della stanchezza della cittadinanza che preme contro i cancelli dell’azienda giorno per giorno.

Anche il nostro Gene si scontrerà violentemente con i dipendenti della multinazionale, ergendosi come ultimo baluardo a difesa di un popolo che, ormai, è anche il suo; le foto scattate a Minamata saranno le sue ultime: tra queste figura anche Tomoko and Mother in the Bath, la sua opera più celebreonesta e pura; tra le più importanti nella storia del fotogiornalismo. Ad essa viene ovviamente dedicata la scena madre del lungometraggio, un momento incorniciato da una regia pulita e misurata. Quest’ultima non è dotata di particolari soluzioni visive e si concentra piuttosto sulle interazioni tra i vari personaggi e sugli ambienti in cui questi sono immersi; a questo proposito, spiccano ogni tanto delle belle inquadrature fisse – nobilitate dall’uso di obiettivi fotografici Leica M 0.8 – e dei frangenti più movimentati, gestiti efficacemente con macchina a mano. Il risultato finale è, in definitiva, lineare ed equilibrato. Sia il regista che il direttore della fotografia hanno collaborato per infondere nuova vitalità all’eredità artistica di Eugene Smith, con l’obiettivo di trasmettere le profonde storie dietro ogni sua istantanea.

Quando si gira un film così intimo che porta in scena intense emozioni, bisogna rendere invisibile la tecnica e diventare invisibile con essa, per non invadere lo spazio attoriale degli interpreti. Durante le riprese, ho quindi deciso di confondermi tra di loro; ciò mi ha permesso di sperimentare varie opportunità di messa in quadro – Benoît Delhomme

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La fotografia gode di colori molto accesi che virano dal blu al verde, fino al caratteristico rosso della camera oscura dove Gene lavora. La forte saturazione rende spesso chiaro il caos che serpeggia nella mente del protagonista.

Volendo fare un paio di considerazioni conclusive, ritengo che il difetto principale del film risieda nel fatto che, nonostante la presenza di bravi attori come Tadanobu Asano e Hiroyuki Sanada – il secondo nel ruolo di Mitsuo Yamazaki, l’audace leader del movimento popolare – il film risulti chiaramente incentrato su Depp, la cui godibile performance mette leggermente in ombra quella dei comprimari. Nonostante ciò, le ultime sequenze de Il caso Minamata sono molto ficcanti, complice il brano Coda. Il macrotema dell’ambientalismo è palesemente il fulcro della creazione di Levitas, dedicata – di riflesso – a tutte le vittime dell’inquinamento industriale e a coloro che lottano al fianco dei sopravvissuti. Un Cattive acque alla giapponese, in estrema sintesi.

Il ritorno di Johnny Depp sul grande schermo riesce nel suo intento, ovvero informare, incuriosire e sensibilizzare su un fenomeno di fama internazionale, una catastrofe della storia contemporanea la cui ferita brucia ancora per la folle Chisso Corporation. “Attualmente, ci sono decine di migliaia di persone che soffrono in Giappone e vogliamo puntare i riflettori su di loro, ma vogliamo anche dare voce alle persone di tutto il mondo che si occupano di questi problemi e far capire loro che non sono sole” ha dichiarato Andrew Levitas, rimarcando inoltre il ruolo cruciale e il potere mediatico, quasi eroico, del giornalismo.

Il mio invito è perciò quello di recuperare questo piccolo gioiello – passato decisamente troppo in sordina – appena possibile e, soprattutto, in maniera legale (magari approfittando della sua uscita in home video il 3 novembre). A maggior ragione se si considera il fatto che la sola presenza di Depp nel cast – viste le sue recenti vicissitudini giudiziarie – ha provocato non pochi problemi alla distribuzione di questa pellicola prodotta, negli Stati Uniti, dalla MGM. La Prefettura di Kumamoto, fortunatamente, l’ha supportata; il pubblico italiano non dovrebbe essere da meno.

A cosa serve una grande profondità di campo se non c’è un’adeguata profondità di sentimento? – William Eugene Smith




Nefasto Articoli
Videogiocatore incallito, cinefilo dalla nascita, attore di teatro e batterista da diversi anni. Adoro approfondire qualsiasi cosa abbia a che fare con l'arte e l'audiovisivo: è difficile fermarmi quando inizio a scrivere o a parlare focosamente di ciò che amo.

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